LA POETICA DI UN «PESSIMISTA RIVOLUZIONARIO»

Lanfranco Binni

1. «Il porto è la furia del mare». L’incontro con Aldo Capitini

«1931. L’anno decisivo per la mia vita»[1]. Nel 1931 il diciottenne studente del Liceo Annibale Mariotti di Perugia, fin dagli anni del ginnasio appassionato di letteratura e storia, compie un’autonoma scelta di vita. Cresciuto in un ambiente familiare nel quale sono confluite ascendenze aristocratiche e borghesi, destinato dal padre a succedergli in un’improbabile professione di farmacista, grazie all’incontro con l’italianista Guido Mazzoni, presidente della commissione di esame di terza liceo, trova una via di fuga nella Scuola Normale Superiore di Pisa: a fine ottobre del 1931 partecipa al concorso nazionale per l’ammissione alla Normale e risulta primo vincitore, come da Pisa gli telegrafa Aldo Capitini, segretario della Normale. Da questo momento è economicamente indipendente e può dedicarsi liberamente agli studi letterari.

Nell’ambiente perugino si è sostanzialmente autoformato in una condizione di giovane intellettuale inquieto; educato per far parte della classe dirigente locale, grazie soprattutto alle ascendenze aristocratiche (la nonna paterna è una marchesa Degli Azzi Vitelleschi, figlia del giurista Giustiniano Degli Azzi Vitelleschi; la madre è una Agabiti, sorella di Augusto Agabiti, scrittore e teosofo; il nonno paterno Francesco Agabiti è stato ufficiale garibaldino; a Foligno è imparentato con i Barugi: il bisnonno Girolamo è stato sindaco della città, liberale e capo riconosciuto della massoneria umbra[2]) e alle ambizioni paterne (i Binni, di origine marchigiana, vengono da una storia di proprietari terrieri, e il padre è profondamente inserito nell’ambiente perugino), dall’adolescenza persegue una propria linea di formazione, affiancando agli studi scolastici personali programmi di lettura; è la letteratura ad appassionarlo, come straordinario crocevia di linguaggi, storia, filosofia, tensione esistenziale:

[…] o mi ritrovo […] in un’aula del Liceo, a leggere, sotto il banco, i romanzi di Svevo, Gli indifferenti di Moravia o gli Ossi di seppia di Montale, sottraendomi cosí alle noiosissime lezioni di un vecchio e dotto professore di greco ma viceversa pronto ad accendermi alla lettura che il preside, il toscano Chiavacci, ci faceva a volte delle poesie di Michelstaedter («il porto è la furia del mare») o, adolescente, nella sala della Biblioteca Augusta (allora era nel palazzo comunale) a leggere antiche cronache perugine che alcuni vecchi inservienti mi portavano, riluttanti e brontoloni («sono libri difficili per la sua età») e da cui traevo, oltre un esagerato orgoglio campanilistico, un rinforzo al mio nascente anticlericalismo (la rivolta antipapale del 1378, la guerra del sale contro Paolo III, la difesa repubblicana contro i sanfedisti aretini nel ’99, la trascinante narrazione del XX giugno) sollecitato anche dai ricordi materni delle gesta del nonno garibaldino alle battaglie di Bezzecca, di Monte Rotondo e Mentana[3].

Negli anni del liceo ha scoperto Leopardi, ha scritto lui stesso poesie, che poi considererà immature prove adolescenziali di scrittura, e ha scritto un primo saggio critico, premiato con la pubblicazione nel 1930 negli annali del Liceo Convitto Cicognini di Prato[4], sul tema della vera natura dell’“eroismo” nell’Eneide: non è un eroe Enea, eterodiretto dagli dei, ma chi invece sa costruire la propria radicale autonomia, consapevole della tragica complessità dell’esistenza; non è questo il messaggio «persuaso» dei Figli del mare di Michelstaedter, oltre e contro la «rettorica» di una vita quotidiana inconsapevole?[5]

Ma è soprattutto la conoscenza di Capitini, a Perugia, nel settembre del 1931, a svolgere un ruolo fondamentale nella sua formazione:

Avevo 18 anni (egli ne aveva 32) quando lo conobbi nell’autunno del 1931: ero un giovanissimo, animato da una forte passione per la poesia ed anche per le questioni etico-politiche, ma ancora privo di contatti culturali piú precisi e di orientamenti sicuri, preso fra prospettive da molto tempo nettissime nello svincolamento dalla religione tradizionale, e le remore gravi e scolastiche dei miti nazionali carducciani, dannunziani, pascoliani e degli inganni pseudo-sociali della dittatura. Lo conobbi nel suo piccolo studio nella torre campanaria municipale (quello che divenne poi il luogo di incontri di tanti uomini della cultura antifascista italiana e che si sarebbe dovuto lasciare intatto per il suo alto significato storico) e fui immediatamente preso dal fascino di quella grande personalità, cosí matura e vigorosa, cosí alta e insieme cosí semplice e schietta: e fra quei suoi libri cosí intensamente e amorosamente annotati, il modestissimo agio del divanetto rosso, la nitida presenza del suo tavolo da lavoro accuratamente ordinato, la finestra aperta sul paesaggio di Assisi, io respiravo un’aria nuova ed alta. Ma anche Capitini intuí il mio giovanile fondo di serietà e di appassionamento e su quello fin da quel primo incontro cominciò a lavorare per vincere, con il mio meglio, i miei limiti di prospettive ideali, e spesso anche di gusto, rilevandoli con franchezza, ma senza farmeli pesare come qualcosa, per lui, di irritante e di incomprensibile[6].

Nello studiolo di Capitini incontra «moltissimi libri che poi costituirono una base essenziale della mia formazione giovanile (Slataper, molti vociani, Michelstaedter, ecc.)»[7] oltre a numerose edizioni delle opere di Leopardi, al quale Capitini ha dedicato la tesi di laurea e la tesi di perfezionamento[8].

2. Binni normalista: ritratto del critico da giovane

Ritrova Capitini a Pisa nel novembre del 1931: oltre a svolgere un ruolo di segretario economo della Normale, è anche assistente volontario di Attilio Momigliano, ma soprattutto è un punto di riferimento culturale e morale per molti giovani normalisti che la sera si incontrano nella sua stanza per discutere, sotto la sua guida riconosciuta, di etica, estetica, letteratura, politica, per ascoltare musica; è dal 1930 che, dopo il Concordato tra Mussolini e la Chiesa cattolica, alla religione di Stato e di regime oppone, con l’amico Claudio Baglietto, motivi di riforma religiosa ispirati ai valori di una religiosità non confessionale. Binni entra subito a far parte del gruppo dei giovani allievi di Capitini, e stringe un rapporto di profonda amicizia con Baglietto; all’Università segue i corsi di Momigliano, che considera un finissimo maestro di lettura della poesia. L’ambiente culturale della Normale, la piú alta e selettiva scuola di formazione della nuova classe dirigente del regime, diretta dal piú prestigioso intellettuale del fascismo, Giovanni Gentile, è decisamente stimolante e costituisce una straordinaria apertura per un giovane che, con la sua personale sensibilità e intelligenza, è pur sempre cresciuto in un ambiente provinciale come quello perugino. A Pisa Binni incontra maestri come Momigliano, Luigi Russo, Matteo Marangoni, Giorgio Pasquali, Ugo Spirito, diventa amico di Delio Cantimori, Vittore Branca, Giuseppe Dessí, degli ex normalisti Carlo Ludovico Ragghianti, notoriamente antifascista, e Claudio Varese. Nell’ambiente dei giovani amici di Capitini si studia molto, si discute continuamente, si assume come valore la responsabilità individuale su un piano di realtà che non può riservare altro che amara ironia alla retorica del regime trionfante, sostenuto da un grande consenso borghese e popolare.

Nei primi mesi del 1933 è il normalista Baglietto ad assumersi la responsabilità di un radicale atto di disobbedienza morale: inviato dalla Normale a Friburgo per una tesi su Heidegger, e dovendo rientrare in Italia per obblighi di servizio militare, oppone la sua obiezione di coscienza, si rifiuta di servire nell’esercito del regime (morirà esule in Svizzera); per Giovanni Gentile è un tradimento e un affronto; la tolleranza con cui sono state sopportate le bizzarrie di Capitini (è anche vegetariano e nonviolento, nella patria dello spirito guerriero e della tronfia virilità del Duce) si trasforma nel suo contrario: Gentile chiede a Capitini di prendere la tessera del partito, come atto di sottomissione e sconfessione di Baglietto, Capitini rifiuta e viene cacciato dalla Normale: torna a Perugia, dove vivrà di lezioni private, ma soprattutto dove riprenderà la sua scuola di dialogo con giovani e giovanissimi, sempre piú orientata alla maturazione di posizioni consapevolmente antifasciste e di nuova progettualità politica e culturale antagonista al regime.

Allontanato Capitini, la normalizzazione gentiliana produce negli allievi della Normale un clima di ritorno all’ordine, percorso da inquietudini antiautoritarie che talvolta si esprimono in forme goliardiche, comunque rivelatrici di un «profondo disagio»[9]. Inizia per Binni un periodo di sostanziale «afascismo»[10] e di progressivo «distacco di gusto e di cultura»[11] dalla “rettorica” di regime. Pur facendo parte dell’«inquieta intellighentsia raccolta nei GUF»[12] prosegue, in maniera piú ordinata e rigorosa, il proprio programma di autoformazione: nel corso del 1932 si è dedicato a una lettura sistematica di Leopardi, nel 1933 si impone letture sistematiche di classici tedeschi e francesi (con la centralità di Hölderlin e Vigny), studiandone le lingue e scoprendo un interesse crescente per la lingua e la letteratura tedesche; dei fenomeni letterari lo interessa la dimensione europea e la relazione complessa tra modernità e tradizioni. Nel 1933 ha iniziato una profonda relazione d’amore con una studentessa lucchese conosciuta alle lezioni di Momigliano e del grecista Augusto Mancini, Elena Benvenuti, che sarà la compagna della sua vita: da questa relazione trae nuova energia, tensione e vitalità.

Nel giugno del 1934 una tesina di III anno in letteratura italiana, L’ultimo periodo della lirica leopardiana[13], discussa con una commissione presieduta da Momigliano, segna l’inizio del percorso critico di Binni nel suo confronto personale con la poesia e la poetica di Leopardi che lo impegnerà per tutta la vita e costituisce il nucleo originario della svolta piú significativa nella critica leopardiana del Novecento rappresentata da La nuova poetica leopardiana pubblicata nel 1947. Rompendo con la linea “idillica” di impronta crociana e rivalutando la “non poesia” filosofica e agonistica dell’ultimo Leopardi come appassionata «poesia del presente»[14] il normalista ventunenne comincia a svolgere un ruolo di critico letterario e storico della letteratura, assumendosi il rischio del giudizio critico. Dal febbraio del 1934 collabora al «Campano», il periodico culturale del Guf pisano, con recensioni (nel n. 2 è il primo a segnalare le poesie di Gugliemo Petroni[15]) e articoli di letteratura e politica: nel n. 3, in Per un commiato[16] esprime la sua profonda gratitudine a Momigliano che lascia l’Università pisana per quella fiorentina[17] e apre una polemica sulla situazione attuale della Germania con l’articolo La Germania e la civiltà europea[18]. È il suo primo intervento di carattere politico, in un momento di conflitto tra le politiche internazionali del fascismo e della Germania nazista sulla questione dell’Anschluss. Binni scrive della necessità di distinguere tra la grande tradizione della cultura tedesca, la Germania europea della Riforma, dell’illuminismo e del romanticismo, e l’involuzione del nazionalismo militarista e del mito ariano nazista («le corna barbariche del dio Wotan e la repugnante croce uncinata»); nello stesso tempo parla della necessità di distinguere tra la retorica di una romanità superiore all’atavica barbarie dei popoli nordici (tema ricorrente nella pubblicistica fascista del periodo), evitando di restare prigionieri di una prospettiva angustamente nazionalistica. Gli risponde, in un successivo numero della rivista, il filologo tedesco W. Theodor Elwert[19], docente a Pisa: il nazismo è lo sviluppo positivo della grande tradizione tedesca, non esistono due Germanie. E interviene nella polemica Walter Prosperetti che su «Battaglie fasciste» accusa di semplicismo le considerazioni di Binni sulla romanità fascista. A entrambi Binni risponde insistendo sulla propria posizione:

Ma se queste idee circolano per l’Europa (e ad ogni modo limitatamente di fronte all’importanza che hanno in Germania) queste sono idee deteriori, nate da un cattivo romanticismo materialistico, lontanissimo dal nostro clima spirituale. Perché noi della razza ce ne infischiamo ed abbiamo altro da fare che correre alla ricerca del puro tipo italiano o del sangue del sud. Queste osservazioni sulla razza ci aprono la via a parlare dell’articolo di Prosperetti. A Prosperetti dico che noi la tradizione ce la portiamo nell’anima e non abbiamo bisogno di parlare di romanesimo per sentire l’apporto che ci viene dalla nostra civiltà. E della nostra tradizione conosciamo i valori e conosciamo tanto di storia e di storia della filosofia, per sapere che importanza abbia avuto l’Italia in tutta la storia europea. Ma la tradizione è un punto di partenza, non una meta di arrivo[20].

Sempre sul «Campano», un articolo sull’Importanza del movimento della «Voce»[21] comincia a delineare le qualità di uno storico della letteratura che attraversa le relazioni tra passato e presente, propone personali periodizzazioni e interpretazioni critiche: le esperienze del movimento vociano nei primi decenni del secolo, sul terreno del rapporto tra etica e letteratura, sono indicate come fondative e di riferimento necessario per una pratica letteraria orientata alla contemporaneità. Ed è in questa prospettiva, in una sempre piú accentuata «tensione verso la contemporaneità»[22], una contemporaneità che vive un rapporto dinamico con il passato, che nel 1935 Binni si laurea con una tesi, La poetica del decadentismo, che, pubblicata nel 1936, costituisce un sorprendente caso letterario e critico, salutato sul «Corriere della sera» da un’importante recensione di Momigliano[23]: opera di un giovanissimo, anche in questo caso propone un’interpretazione critica personale di un fenomeno letterario svalutato dalla critica accademica ma anche da quella crociana, suscitando l’ostilità di riviste di regime come «Libro e moschetto» e, per la sua apertura europea e antiretorica, incontrando l’interesse degli ambienti antifascisti che si vanno estendendo in Italia a seguito dell’aggressione fascista all’Etiopia e alla Repubblica spagnola, come ricorderà Pietro Ingrao nel 1997[24].

3. La cospirazione antifascista e il liberalsocialismo

Dal 1933, dopo il ritorno a Perugia di Capitini, si è mantenuto in costante rapporto con quello che considera un maestro di rigore intellettuale e morale, incontrandolo durante le vacanze estive e partecipando sempre piú attivamente all’attività della rete antifascista che Capitini comincia a costruire a livello nazionale nel 1935-1936. Grazie al lavoro assiduo di Capitini, Perugia diventa uno dei centri principali della cospirazione contro il regime, luogo di continui incontri tra intellettuali impegnati nella costruzione di un’alternativa culturale e politica al fascismo negli anni del suo massimo consenso popolare e dell’inizio delle aggressioni militari all’Africa e alla Spagna democratica. E Binni diventa

[…] collaboratore di Capitini nella diffusione delle idee antifasciste e nella creazione della complessa rete di rapporti clandestini, di cui Capitini era il promotore piú geniale ed attivo, quanto piú la stessa propaganda e attività politica si appoggiava in lui a tutta un’originale visione della vita e della società, ad una passione morale e religiosa della vita e della società, ad una passione morale e religiosa, piú che solamente politica. Cosí ciò che ho detto per me (un esempio della potente forza educativa di Capitini) si moltiplicava nel caso di tanti altri miei coetanei (o simili spesso a me sulle basi di partenza e nelle forme di svolgimento, perugini e umbri), mentre, per opera sua, io ed altri giovani trovavamo per la prima volta contatti non solo con i vecchi antifascisti perugini borghesi, ma quello, fecondo ed entusiasmante, con i tenaci e coraggiosissimi popolani perugini (popolani o di recente origine popolana) oppositori della dittatura, aperti alle istanze sociali e rivoluzionarie piú risolute[25].

L’antifascismo di Capitini si distingue infatti per una precisa concezione della politica come formazione culturale ed etica che agisca in profondità nelle coscienze, decostruendo il fascismo nelle sue radici storiche e culturali, opponendo alla “rettorica” del servilismo e della subalternità, radicate nello stesso liberalismo prefascista, la piena responsabilità “persuasa” dei singoli in una prospettiva di reale cambiamento rivoluzionario dei rapporti tra le classi; non si tratta di limitarsi a sostituire la classe dirigente in orbace con una classe dirigente borghese lasciando intatti i rapporti di proprietà, quanto di operare, con metodi coerenti con gli obiettivi politici, una vera rivoluzione che liberi forze nuove e consapevoli dal “basso” di una società corrotta dalla dittatura fascista e dalle complicità della monarchia e della Chiesa cattolica. Nel suo lavoro di formazione e nuova progettualità politica ispirata a valori di religiosità laica, Capitini rivisita le tradizioni culturali antiche e moderne, si confronta con le correnti di pensiero prefasciste, con il socialismo e il marxismo, individuando con sempre maggiore precisione una propria posizione di rivoluzionario nonviolento, antidogmatico e antiautoritario; scrive le sue proposte e le fa circolare in forma di dattiloscritti clandestini, come materiali di riflessione e discussione. Ricorda Capitini:

Ero a Firenze nell’autunno 1936 con Walter Binni, e ci trovammo nella casa di Russo in uno di quei frequenti incontri con molti antifascisti (Luigi Russo era “centro” a Pisa dove insegnava, e a Firenze dove abitava). Questa volta dovevamo conoscere Benedetto Croce, e difatti andammo da lui al solito Albergo di Via Porta Rossa, e Russo ci presentò lui e le due figlie, Elena e Alda. Uscimmo poi insieme. Io gli esposi il lavoro che facevamo di collegamento, immettendo idee di ripresa intransigente della libertà e, per alcuni, del socialismo: insistei sul fatto che il collegamento era soprattutto tra giovani che stavano rifiutando, per intero, il fascismo. Lo rivedemmo in casa Russo, con molti altri, come accadeva in belle serate nelle quali il Croce, che era un conversatore vivissimo, alternava seri giudizi e considerazioni incisive, con argutissimi aneddoti. Binni ed io dovevamo partire per Milano, e siccome il Croce era ancora a Firenze, mi venne in mente la mattina prima di partire con Binni (e trovammo in treno Giansiro Ferrata) di lasciare a Russo un pacco dei dattiloscritti che facevo circolare perché li mostrasse al Croce, per fargli conoscere le idee che diffondevo: al ritorno da Milano li avrei ritirati. Di nuovo a Firenze, seppi da Russo che Croce era rimasto soddisfatto degli scritti e li avrebbe pubblicati in un volume della Biblioteca di cultura moderna di Laterza, cosa a cui non avevo per nulla pensato, ma che accettai ben volentieri quali ne potessero essere le conseguenze[26].

È il primo libro di Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, pubblicato alla fine del 1936, all’origine del movimento liberalsocialista.

Nel 1936 Binni è ormai pienamente inserito nell’attività antifascista clandestina, a Perugia e sulle reti nazionali. Dopo la laurea a Pisa nel 1935, ha ottenuto un posto di perfezionamento alla Normale, supplendo Luigi Russo per due mesi. Dopo l’esame normalistico finale, sostenuto con Gentile e il vicedirettore Gaetano Chiavacci, ha vinto un concorso per cattedre di italiano e storia negli Istituti tecnici superiori ed è partito per il servizio militare: tra 1936 e 1937 frequenta la Scuola allievi ufficiali di Moncalieri ed è quindi ufficiale a Osoppo e Bolzano. Il successo editoriale della Poetica del decadentismo (Capitini gli invia la recensione di Momigliano pubblicata sul «Corriere della sera» del 9 ottobre 1936) gli procura collaborazioni con le principali riviste letterarie nazionali: «Nuova Italia», «Leonardo», «Letteratura». A Firenze conosce Eugenio Montale, Alessandro Bonsanti, Elio Vittorini, Ernesto e Tristano Codignola, Cesare Luporini, Franco Fortini, Giorgio Spini. Allievo ufficiale a Moncalieri, a Torino conosce Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Anche a Bolzano, ufficiale, anima un gruppo di antifascisti. Prima di partire per il servizio militare, a Perugia ha fatto parte di un comitato antifascista raccolto intorno al repubblicano Alfredo Abatini, nella cui casa si riuniscono rappresentanti dell’antifascismo degli anni venti, Capitini e alcuni del suo gruppo. Con Capitini ha cominciato a viaggiare per l’Italia, alla ricerca di collegamenti e momenti di confronto politico: un’intensa attività da «commessi viaggiatori della cospirazione»[27] in cui soprattutto dal 1936 si impegnano numerosi futuri protagonisti della Resistenza.

Concluso il servizio militare, nel 1938 insegna a Pavia, all’Istituto tecnico Bordoni, e da Pavia compie frequenti viaggi a Milano, dove conosce Ferruccio Parri, Giulio Preti, Francesco Flora, i promotori del Soccorso rosso, numerosi operai comunisti, a Vicenza (dove conosce Neri Pozza, Antonio Barolini, Antonio Giuriolo), a Bologna (Giuseppe Raimondi, Giorgio Bassani, Cesare Gnudi), a Padova (Concetto Marchesi, Manara Valgimigli); rientrato a Perugia, dove dal 1939 insegna all’Università per Stranieri, in occasione di numerosi viaggi a Roma conosce Guido Calogero, Mario Alicata, Pietro Ingrao, Ugo La Malfa, Paolo Bufalini e molti altri. Sostiene le posizioni del «liberalsocialismo» dopo aver spinto Capitini nel 1937 a trasformare in movimento politico-culturale le tesi degli Elementi di un’esperienza religiosa. Ricorderà Capitini nel 1966:

Dopo qualche mese che i miei Elementi erano usciti (nel dicembre 1936) Walter Binni mi disse: «Perché, sulla base di ciò che hai scritto negli Elementi, nell’ultima parte specialmente, e indipendentemente dal lato religioso, non cerchi di stabilire una collaborazione precisa di vero e proprio Movimento?». Riflettei sulla proposta, e concretai alcuni punti schematici, che erano fondati sull’esperienza che avevamo fatto durante il fascismo, che poteva riassumersi cosí: siamo socialisti, ma non possiamo ammettere il totalitarismo burocratico statalistico; siamo liberali, ma non possiamo ammettere il dominio del capitalismo che è nel liberismo. Non era giustapposizione. La sofferenza e lo sdegno per il sistema totalitario, autoritario e centralistico erano profondi, non al punto di desiderare un totalitarismo “migliore”, ma tali da non far rinunciare mai alla libertà di informazione e di critica, alla libertà di associazione e di sviluppo culturale, per nessuna ragione da sopprimere, ma sempre da accrescere, oltre i tradizionali strumenti di tipo parlamentare, da mantenere, ma insufficienti, e associabili con forme di controllo dal basso, decentrate e moltiplicate. Questa vita della “libertà” era da vedere come intrinseca al socialismo stesso, e quindi non da considerare indissolubile con la libertà di mercato del liberismo economico. Altro che partito unico, iscrizione obbligatoria per avere impieghi pubblici, segretari federali onnipotenti (e nominati dall’alto), stampa uniforme e conformista, ministro della propaganda e del controllo di tutte le espressioni pubbliche, censura, gerarchi, e nelle scuole “libro e moschetto” (con un libro che esalta… il moschetto stesso)![28]

Poi l’incontro tra Capitini e Guido Calogero, «con una differenza che […] doveva farsi sempre piú visibile […]: l’esigenza di Calogero era soprattutto giuridica, costituzionale e altamente riformistica; l’esigenza mia era libertaria-popolare, pronta ad assimilare anche le rivoluzioni (se nonviolente) pur di allargare a tutti la società»[29].

Il liberalsocialismo di Capitini, ma anche di Binni, nasce da una critica profonda al liberalismo prefascista nemico del socialismo, e «socialismo voleva dire una struttura economica che togliesse il potere finanziario ai gruppi che si arricchirono col fascismo e pagarono le squadre fasciste perché bastonassero i contadini e difendessero la “proprietà”; socialismo voleva dire l’avanzare della classe lavoratrice coi suoi giovani e la sua sete di cultura; insomma doveva venire, al posto dello Stato cattolico-borghese, uno Stato intellettual-popolare»[30]. Mentre comincia a delinearsi la concezione capitiniana della “omnicrazia”, il potere di tutti e dal basso, come radicale alternativa al modello di società borghese capitalistica, all’origine dello stesso fascismo, e non come riformistica alleanza di liberalismo e socialismo, prende forma anche la differenza tra rivoluzionari liberalsocialisti e comunisti staliniani. La Costituzione sovietica del 1936 è stata accolta da Capitini e da Binni come straordinario documento di progettualità politica, ma il suo rapido affossamento già nel 1937 è stato anche il segno di una grave involuzione autoritaria e antisocialista dell’esperienza sovietica. Anche se per i liberalsocialisti il confronto con i militanti comunisti è aperto e continuo. È comunque in questo periodo, tra 1937 e 1938, che la proposta del liberalsocialismo capitiniano comincia a prendere forma, in una prospettiva che sarà profondamente diversa da quella di Calogero e di tanti altri che nel 1942 daranno vita al Partito d’Azione. Per Capitini, ma anche per Binni, non si tratta di lavorare per un semplice ricambio di classe dirigente che lasci inalterati i rapporti di classe nella società italiana; si tratta invece di promuovere e sostenere un processo di profonda trasformazione culturale delle coscienze, che sottragga consenso al fascismo e susciti un nuovo protagonismo delle classi popolari: studio, ascolto, educazione, collegamenti tra «centri» (in alcuni casi anche singole persone) sono gli strumenti principali di lavoro politico.

Nel 1939 Binni è comandato all’Università per Stranieri di Perugia, dove insegnerà fino al 1945; nello stesso anno si sposa con Elena Benvenuti, nel mese di novembre muore precocemente la madre Celestina Agabiti, maestra amata di sensibilità. Da Perugia continua a collaborare alle principali riviste letterarie nazionali da italianista riconosciuto per le sue qualità critiche e, a fianco di Capitini, al lavoro politico-culturale sulle reti antifasciste. Nel 1940 è richiamato alle armi: all’entrata in guerra del fascismo è inviato sul fronte francese e su quello jugoslavo, quindi viene congedato per riprendere l’insegnamento all’Università per Stranieri. Nel 1942 consegue la libera docenza in letteratura italiana e tiene un corso libero all’Università di Pisa; nello stesso anno pubblica una monografia alfieriana, Vita interiore dell’Alfieri[31], scritta di getto in pochi mesi nel 1941, in cui applica il proprio metodo storico-critico di ricostruzione integrale dei fenomeni letterari alla personalità di un autore che gli è particolarmente congeniale; nel secondo capitolo, «La passione politica», la tensione tra passato e presente è evidente, e le sue suggestioni sono chiaramente percepite negli ambienti intellettuali antifascisti:

Ne risultò un libro affrettato e troppo “eloquente”, – scriverà Binni nel 1980 – ma vivo e non insignificante per la sua data, né criticamente privo di spunti che, legati alla fondamentale lettura etico-politica, emergevano come rinnovatori (basti pensare all’uso delle lettere e dei documenti autobiografici, alla descrizione delle consonanze romantiche europee, al rilievo della natura tragica del teatro alfieriano in netto contrasto con la sua lettura critica dominante), insieme riconvergevano in un rilievo, totale e antidistinzionistico, di una personalità intellettuale-poetica cosí affascinante e conturbante per me anche ben al di là dell’impatto con l’epoca della guerra, del fascismo, della connivenza con questo della monarchia, della Chiesa cattolica, delle classi proprietarie e parassitarie, dei letterati conformisti e disimpegnati all’insegna di “letteratura come vita” (in realtà “vita come letteratura”). Per non dire, in particolare, dell’attrazione esercitata dalla feroce carica anticlericale e anticattolica della Tirannide (con il profondo modello del Dio ebraico-cattolico per i tiranni terreni) esplicitata dall’Alfieri con parole inequivoche nelle memorabili sentenze sull’infallibilità del papa («un popolo che crede potervi essere un uomo che rappresenti immediatamente Dio, un uomo che non possa errar mai, egli è certamente un popolo stupido») e sull’inconciliabilità della religione cattolica con la libertà («la cristiana religione, che è quella di quasi tutta l’Europa, non è per se stessa favorevole al vivere libero, ma la cattolica religione riesce inconciliabile quasi col vivere libero»), che trovavano fulminea consonanza con il mio costituzionale anticlericalismo e anticattolicismo[32].

Il 1942 è anche l’anno dell’arresto di Capitini a Firenze, il 27 gennaio, insieme a Guido Calogero, Carlo Ludovico Ragghianti, Enzo Enriques Agnoletti, Tristano Codignola, Raffaello Ramat, in occasione di una riunione del movimento liberalsocialista; rimarrà in carcere per quattro mesi, per essere arrestato di nuovo a Perugia nel maggio del 1943; sarà scarcerato il 25 luglio. In questo periodo Binni, a Perugia, mantiene i collegamenti del gruppo liberalsocialista con rappresentanti di tendenze politiche diverse; la città, risparmiata dai bombardamenti alleati fino al 1944, ha conosciuto un solo episodio di dissenso pubblico antifascista, alcune scritte murali nel giugno 1941, alle quali è seguita una dura caccia all’oppositore, con arresti soprattutto nelle classi popolari. La polizia non ritiene particolarmente pericoloso il dissenso degli intellettuali, che in genere appartengono a ceti borghesi profondamente inseriti nella storia e nel tessuto sociale della città. La situazione cambia radicalmente con la caduta del regime il 25 luglio 1943. Gli antifascisti escono allo scoperto, e anche a Perugia e nella provincia si apre una fase apparentemente nuova: ma nonostante alcune manifestazioni popolari di entusiasmo, e i prigionieri politici vengono liberati, tutto continua come prima, con le autorità al loro posto.

4. La Resistenza

Dalla fine di agosto si riorganizzano i partiti, ma dopo l’8 settembre «nonostante un momento di inevitabile sbandamento, i fascisti repubblicani poterono facilmente riprendere il controllo della situazione»[33]. Con l’occupazione tedesca, ai repubblichini è affidato il controllo della città, che non suscita particolari preoccupazioni, mentre l’attenzione degli occupanti si rivolge principalmente alla campagna e alle montagne dell’Umbria dove si vanno formando le prime brigate partigiane. A Perugia, che secondo l’accordo tra le forze politiche antifasciste dovrebbe svolgere un ruolo di coordinamento politico e militare della Resistenza nel territorio provinciale, il prefetto segnala in un’informativa del 18 settembre che si è costituito un «comitato dei dodici» di cui fanno parte:

Comparozzi, medico dentista; ha l’incarico di rappresentare la espressione comunista e di preparare in tempo il terreno per le nuove elezioni politiche. Il Comparozzi si serve di operai sovversivi per propagandare e divulgare le idee e le decisioni del «Comitato suddetto». Fra questi operai figura il falegname Pirchia, che deve essere ben noto alla Questura. Il Pirchia è stato notato in istato di eccitazione a far pubblica propaganda per il Corso Vannucci di Perugia.

Amico del Comparozzi e con le stesse finalità del Pirchia è il meccanico della ditta Flamini, Goretti. A questi due operai si unisce un certo Mario, che ha un distributore di benzina a Perugia a Porta Pesa.

Innamorati, figlio dell’avv. Innamorati, elemento pericoloso, capace di tutto. Molti si meravigliano come le autorità non abbiano ancora provveduto nei suoi riguardi.

Dr. Ugo Lupattelli, radiologo, appartenente al partito socialista, di temperamento apparentemente moderato ma in sostanza forte ed acceso propagandista. Questo soggetto è molto abile e furbo tanto da non incappare in provvedimenti della Questura, la quale o non riesce a stabilire un dato preciso a suo carico, oppure si lascia ingannare.

Avv. Vischia, cattolico, comunista, elemento molto attivo del comitato. La sua propaganda è nefasta. Il Vischia mira ad essere nominato podestà di Perugia.

Prof. Binni, figlio del farmacista Renato Binni. Questo soggetto è del tutto scalmanato e in unione del predetto studente Innamorati svolge propaganda atta al sovversivismo ed alla violenza.

Avv. Abatini, è molto affiatato piú che con i socialisti, con i comunisti.

Comm. Notaristefani, Procuratore del Re, figura molto dubbia.

Avv. Apponi, giudice e pretore di Assisi, forte esponente del partito di azione.

Avv. Bellocchi, Sostituto Procuratore del Re, facente parte del partito di azione e di propaganda alquanto accesa, tendente a turbare l’ordine pubblico.

Dr. Severi, professore di anatomia patologica, comunista e propagandista spinto ed acceso.

I suddetti nominativi, esclusi forse gli operai, sono tutti indistintamente aggregati alla massoneria.

In Perugia la propaganda viene fatta alacremente ovunque, persino pubblicamente nelle strade principali. L’attuale propaganda è fortemente antitedesca, perché contro il fascismo, in aperto contrasto col comunismo. […]»[34].

In una successiva informativa del 10 dicembre, il questore precisa che

[…] dopo la costituzione del Governo Badogliano si formò in Perugia un cosiddetto «comitato di fatto» del quale facevano parte i maggiori esponenti locali di partiti avversi al Regime Fascista. Scopo di detto comitato era quello di vigilare sulla situazione politica di quel periodo e di designare alle Autorità i nominativi per la ricostituzione di tutte le cariche ed incarichi sociali ed amministrativi. I componenti del suddetto comitato si dimostrarono, invero, molto attivi, invigilando sugli eventuali movimenti reazionistici da parte di ex fascisti, fomentando e prendendo parte alle poche dimostrazioni verificatesi in città. Dopo il sopraggiungere delle truppe germaniche e la ricostituzione del P.R.F. gli individui di cui sopra, nella maggior parte si resero irreperibili.

Il COMPAROZZI citato nella informazione confidenziale si identifica per il meccanico dentista COMPAROZZI Emilio fu Vincenzo nato ad Assisi il 23-9-1894 qui residente in via dei Priori n° 16, già iscritto nel novero dei sovversivi di questa Provincia quale professante idee comuniste.

Il PIRCHIA, citato nella stessa informazione, si identifica per PIRCHIA Guido fu Nicola, nato a Perugia il 10-5-1890, abitante in via Fabretti n° 2 – falegname – iscritto nel novero dei sovversivi quale professante idee socialiste democratiche.

GORETTI, si identifica per meccanico GORETTI Pietro fu Nazzareno – nato a Perugia il 20-7-1899 – abitante in via del Verzaro n° 9, iscritto nel novero dei sovversivi quale socialista.

Il «MARIO» citato nella predetta nota, si identifica per SANTUCCI Mario fu Lino – nato a Perugia il 23-3-1901 – rivenditore di benzina a Porta Pesa, abitante in via del Maneggio n° 7, iscritto nel novero dei sovversivi di questa Provincia, quale comunista schedato, ex confinato politico.

«INNAMORATI», si identifica per Innamorati Francesco fu Giuseppe – nato a Perugia il 20-12-1924 – studente, abitante in P. V. Emanuele n° 3h, immune da precedenti politici negli atti di ufficio.

Dr. Ugo LUPATTELLI, radiologo, si identifica per LUPATTELLI Ugo fu Carlo, nato a Deruta il 15-11-1877 – qui abitante in via dei Priori n° 8 – radiologo, iscritto nel novero dei sovversivi di questa Provincia quale socialista.

Avv. VISCHIA, si identifica con VISCHIA Carlo fu Eugenio, nato a Modica il 12-2-1894 – libero professionista – qui abitante in via Spirto Gualtieri n° 2b, iscritto nel novero dei sovversivi di questa Provincia quale popolare, affiancante in questi ultimi tempi l’opera dei comunisti.

Prof. BINNI, si identifica per BINNI Walter di Renato, nato a Perugia l’11-3-1913, domiciliato a Pavia, residente saltuariamente a Perugia presso il padre, farmacista, abitante in via della Cupa n° 1. Non ha precedenti politici negli atti di ufficio.

«ABATINI» si identifica per ABATINI Alfredo fu Angelo, nato a Perugia il 3-4-1892 – avvocato civilista, abitante in via della Luna n° 2, iscritto nel novero dei sovversivi di questa provincia, quale repubblicano.

Avv. APPONI, si identifica per APPONI Alberto fu Vittorio, nato a Roma il 25-1-1906, pretore ad Assisi, attualmente irreperibile. L’Apponi che si era rivelato elemento antifascista anche prima della costituzione del Governo Badoglio, durante i 45 giorni del predetto Governo, si rivelò elemento attivissimo in seno ai partiti avversi al Regime Fascista.

Dr. SEVERI, si identifica per SEVERI Prof. Lucio fu Marino, nato a Perugia il 31-1-1908 – insegnante patologia presso l’Università – abitante in viale Cacciatori delle Alpi n° 12. Non ha precedenti politici negli atti di ufficio.

SIMONUCCI, di Umbertide si identifica per SIMONUCCI Raffaele fu Virgilio nato ad Umbertide l’8-6-1900, ivi domiciliato – insegnante di matematica – impiegato presso il Comune di Umbertide. Ha precedenti negli atti d’Ufficio quale socialista – già iscritto alle loggie massoniche.

Tutti i nominativi di cui sopra, durante i 45 giorni del governo Badoglio, presero parte attivissima a tutti i movimenti politico-amministrativi e costituirono la parte vitale e direttiva di ogni movimento verificatosi in detto periodo.

È da riconoscere però che i medesimi si adoperarono in ogni occasione per evitare incidenti di piazza, tanto ché in questa città non si verificarono disordini degni di nota.

Sopraggiunte in Perugia le truppe germaniche e ricostituitosi il P.R.F. gli elementi di cui sopra (alcuni dei quali hanno preferito allontanarsi dalla città) pur continuando a nutrire le stesse ideologie, non hanno dato luogo a rilievi.

Nulla si può dire sul conto dei magistrati DE NOTARI STEFANI Vito fu Raffaele e BELLOCCHIO Antonio fu Angelo, rispettivamente Procuratore e sostituto Procuratore di Stato i quali, ben lungi dal fare parte del Comitato in parola, mantennero nei suoi riguardi contegno indifferente, indirizzando la propria attività a prevenire turbamenti dell’ordine pubblico, secondo le direttive dell’autorità governativa dell’epoca[35].

Le approssimazioni dell’informativa del 18 settembre e gli errori della successiva del 10 dicembre (nel caso di Binni si dice che è irreperibile, mentre insegna all’Università per Stranieri, e non si segnala neppure che dal 1939 è domiciliato a Perugia, e non a Pavia, in Via Spirito Gualtieri, dove vive con sua moglie e il primo figlio) sono da valutare all’interno del clima di disfacimento del regime e di paura dei funzionari per l’avanzata alleata e il prevedibile cambiamento della situazione. E in ogni caso il vero pericolo è la resistenza armata all’esterno della città. Il «comitato dei dodici», sviluppo del comitato antifascista che dal 1936 si è riunito presso il repubblicano Abatini, è una sorta di prefigurazione del Cln di Perugia che si costituisce il 2 dicembre 1943, con la presenza di Abatini per i repubblicani, Emidio Comparozzi per i comunisti, Alberto Apponi per il partito d’azione, Bonuccio Bonucci per i liberali; i democristiani entreranno solo nel giugno 1944, alla vigilia della liberazione.

5. Liberalsocialisti e liberalproprietari. Binni socialista

Nel corso del 1943 le differenze di prospettiva all’interno dell’area liberalsocialista hanno prodotto le loro conseguenze: Capitini non è entrato nel PdA, mantenendosi in una posizione di «socialista indipendente»; la sua scelta di nonviolenza appare inadeguata alle dure necessità della lotta armata, che tuttavia non condanna e comprende. Molti liberalsocialisti, a livello nazionale e anche in Umbria, hanno invece dato vita al PdA, considerandolo la sola autentica alternativa politica, in grado di svolgere un ruolo determinante nella costruzione di una classe dirigente democratica. Binni, con numerosi giovani che si sono formati alla scuola di Capitini, aderisce invece al Psiup, il partito socialista ricostituito nel 1942 e nel quale è confluito il Movimento di Unità Proletaria organizzato da Lelio Basso a Milano: sulla tradizione del vecchio Psi prefascista e dell’emigrazione si sono innestate culture politiche della sinistra critica del movimento operaio, dal trotzkismo al luxembourghismo. Con i comunisti, che dalla “svolta di Salerno” seguono una tattica di fronte unito anche con la monarchia, il confronto degli azionisti e dei socialisti è aspro. Il Cln perugino non riesce a svolgere un ruolo effettivo di coordinamento politico e militare perché sostanzialmente paralizzato dalla competizione tra comunisti, socialisti e democristiani, mentre la destra liberale esprime una linea di aperta critica alla lotta armata[36].

Alla vigilia della liberazione di Perugia da parte delle truppe alleate, il 20 giugno 1944, un Cln molto debole e diviso, che non ha svolto un ruolo significativo nel coordinamento politico-militare della Resistenza, nomina la prima giunta comunale (per il Psiup ne fa parte Binni) che tuttavia non sarà riconosciuta dal comando alleato, che le opporrà una giunta diversa a direzione liberale. Il Cln, che per la sinistra dovrebbe comunque precostituire l’embrione della nuova società democratica, si dà uno strumento di informazione politica, settimanale, il «Corriere di Perugia», affidandolo alla direzione di Capitini; i redattori sono Binni e Bruno Enei, due “liberalsocialisti” della sinistra del Psiup[37]. Enei, amico di Capitini e di Binni, è stato comandante partigiano a Gubbio ed è considerato dalla destra del Cln il responsabile di una sanguinosa rappresaglia tedesca.

Il primo numero del «Corriere di Perugia» esce il 15 luglio, e due giorni dopo Capitini tiene, nella Camera del Lavoro, il primo incontro pubblico del Centro di orientamento sociale: con la liberazione di Perugia si è aperta la possibilità di riprendere e rilanciare, in forme organizzative nuove, quel lavoro assiduo di formazione ed educazione politico-culturale che lo aveva caratterizzato negli anni della cospirazione antifascista. Il movimento dei Cos, che per alcuni anni si estenderà in Umbria e in Toscana, vuole svolgere un ruolo attivo nella costruzione dal basso di una società realmente democratica, fondata sulla partecipazione consapevole delle classi tradizionalmente escluse dal potere politico. Le prime riunioni perugine, che affrontano concretamente i problemi della vita quotidiana ma sempre all’interno di una prospettiva liberalsocialista, sono affollate di militanti di ogni tendenza politica della sinistra, ma anche di comuni cittadini, tutti sollecitati a pensare e a decidere in prima persona. È un’esperienza di democrazia diretta che non disconosce affatto il ruolo dei partiti e del Cln, che tende anzi a coinvolgere nel proprio laboratorio.

La proposta politico-culturale di Capitini è come sempre generosa e disinteressata, utopica e concreta, e incontra adesioni entusiastiche soprattutto in persone comuni tradizionalmente escluse dalla gestione della cosa pubblica. E questa nuova apertura della progettualità politica a una dimensione insieme piú complessa ma anche piú concreta, tesa a costruire una democrazia realmente partecipata, si riflette anche nel «Corriere di Perugia». Ma non è questa la concezione della politica su cui si vanno orientando i partiti del Cln, tutti alla ricerca di un proprio spazio di rappresentanza e, nel caso dei liberali e dei democristiani, al ristabilimento di antiche posizioni di rendita (in tutti i sensi). Diverso è l’atteggiamento dei partiti di sinistra, che considerano il tentativo di Capitini opera di intellettuali su un terreno sostanzialmente culturale e di scarsa rilevanza politica, non da ostacolare ma neppure da sostenere.

L’incomprensione tra concezioni della politica su piani troppo diversi si riflette all’interno dello stesso Psiup, sovrapponendosi a distanze di ordine generazionale: i “giovani” del partito, che a livello nazionale trovano il loro riferimento nella corrente di «Iniziativa socialista», guidata a Roma da Mario Zagari, sono su posizioni considerate estremiste dai “riformisti” del Psi prefascista; si considerano a sinistra del Pci della svolta di Salerno, del suo tatticismo di “responsabilità nazionale” anche nei confronti della monarchia, e portano avanti una linea di aperta concorrenza con il partito di Togliatti, sia pure nell’ambito di uno spazio comune della sinistra, e insistono perché il Psiup si costituisca come partito rivoluzionario di classe, “autonomo” dalle involuzioni dello stalinismo. Altri motivi di carattere locale, il provincialismo culturale della città e la forte presenza della massoneria anche tra i notabili del vecchio Psi, svolgeranno un ruolo non secondario nelle difficoltà di Capitini e dei giovani socialisti raccolti intorno a Binni.

I primi numeri del «Corriere di Perugia», tra luglio e settembre, interamente redatti da Capitini, Binni ed Enei, riflettono pienamente la loro impostazione culturale e politica: la nuova esperienza del Cos vi trova ampio spazio, e il giornale (settimanale di due pagine in grande formato, con una vendita di 7.000 copie) è vissuto come strumento di informazione e formazione nella prospettiva liberalsocialista. Le fonti del periodico sono le radio e i giornali, italiani e stranieri, dai quali la redazione riesce faticosamente a procurarsi informazioni, restituendole nel «Notiziario militare» curato da Enei e nella rubrica «Varie notizie» curata da Binni; Capitini e Binni inoltre scrivono articoli di carattere politico e culturale. Un esempio delle «Varie notizie» sintetizzate da Binni, nel primo numero del 15 luglio 1944:

Dal 1939 sono stati assassinati in tre campi di concentramento della Polonia piú di due milioni di ebrei polacchi.

Cesare Rossi, amico e segretario di Mussolini, è stato arrestato a Napoli e sarà presto giudicato. Vi consigliamo di ricercare sui giornali del ’24 (prima della soppressione della libertà) il suo memoriale su Mussolini.

Il presidente Bonomi ha affermato che le norme sulla epurazione e defascistizzazione negli impieghi statali saranno inesorabilmente applicate.

Gli agenti adoperati nelle esecuzioni di ostaggi volute dai tedeschi e in quelle ordinate dalle Corti fasciste repubblicane erano volontari, e per ogni esecuzione ricevevano quattrocento lire a testa.

I socialisti hanno chiesto che il processo Matteotti venga ripreso e fatto ora in piena libertà.

Bruno Buozzi è stato commemorato a Roma per iniziativa dell’Unione socialista romana; prima del discorso commemorativo l’orchestra ha eseguito la Terza Sinfonia di Beethoven, l’eroica.

I prigionieri italiani che lavorano negli Stati Uniti riscuotono ventiquattro dollari al mese ed usufruiscono di una libera uscita.

Nella prigione della Gestapo a Roma è stato trovato scritto con l’unghia sulla parete della camera di tortura: «Dio, dammi la forza di sopportare queste ultime ore di sofferenza».

Il colonnello Stevens ha detto alla radio di Londra: «La funzione di solidarietà europea che l’Italia non avrebbe mai dovuto abbandonare, viene ora ripresa dai patrioti italiani con le armi in pugno. La vitale posizione strategica dell’esercito dei patrioti italiani simboleggia e prova l’importanza politica dell’Italia nell’Europa di domani».

Al Lungotevere Arnaldo da Brescia, nel luogo dove Matteotti fu rapito, Pietro Nenni, segretario del Partito socialista, ha detto: «strapperemo il re dagli ozi di Capua per portarlo dinanzi alla Costituente. Se la repubblica non è ancora sorta, la monarchia è già morta».

Nello stesso numero, in un articolo non firmato di Binni, Un fratello europeo, una lapide del cimitero di Perugia, sulla tomba di un giovane militare cecoslovacco morto nel 1917 nel corso di un’esercitazione durante la Prima guerra mondiale[38], è l’occasione per un riesame storico del tradimento fascista degli ideali risorgimentali e libertari, mazziniani e garibaldini, riscattati dalla guerra di liberazione e da una nuova riapertura della prospettiva europea.

Nel settembre 1944, a fianco del «Corriere di Perugia» viene pubblicato un «Bollettino del Corriere di Perugia» affidato alla sola cura di Binni e dedicato a notizie militari e politiche di ambito nazionale e internazionale; in questo modo Capitini pensa di dedicare maggiore spazio nel «Corriere di Perugia» alle questioni locali e al dibattito sui grandi temi politici e teorici del momento. Ma l’iniziativa di Capitini, non discussa preventivamente nel Cln, suscita l’aspro dissenso dei liberali e dei democristiani, e le riserve dei comunisti, che non tollerano questa ulteriore espansione del ruolo politico dei “capitiniani”. Del bollettino esce soltanto il primo numero, che per di piú ha una diffusione limitata anche perché a Perugia cominciano ad affluire con una certa regolarità i giornali romani. Binni esce dalla redazione del «Corriere di Perugia», e nell’ottobre lo stesso Capitini si dimetterà dalla direzione del giornale. Da questo momento Capitini, pur collaborando con il «Corriere di Perugia», si dedicherà soprattutto all’esperienza dei Cos e alla sua nuova funzione di commissario straordinario dell’Università per Stranieri, riannodando intorno alle attività dell’Università la ricca rete nazionale di relazioni intellettuali costruita negli anni della cospirazione antifascista.

Binni si dedica invece alla costruzione del Psiup, svolgendo un’intenso lavoro di organizzazione anche in contatto con la corrente romana di «Iniziativa socialista» di Zagari e scrivendo sul giornale della federazione perugina «Il Socialista». Il confronto all’interno del Psiup è acceso, soprattutto sulla questione del rapporto con il Pci: la direzione nazionale di Nenni è su posizioni fusioniste, mentre «Iniziativa socialista» segue una linea di autonomia e concorrenza con i comunisti, su basi antistaliniste e “massimaliste”. A sviluppo e superamento del socialismo prefascista, si tratta di costruire una prospettiva di socialismo radicale capace di coniugare la socializzazione dei mezzi di produzione e la riforma agraria con la piú libera espressione delle potenzialità umane imprigionate dal capitalismo. A questa linea non è certo estranea la formazione liberalsocialista di Binni e di molti giovani del Psiup che in Umbria si sono formati anche alla scuola di Capitini. Ed è una linea che suscita conflitti con il vecchio apparato socialista impegnato dopo la Liberazione a ristabilire il proprio ruolo, e che non gradisce affatto l’efficace attivismo dei “giovani” raccolti intorno a Binni; questo conflitto, endemico per tutto il 1944, si manifesta in tutte le sue conseguenze nel giugno del 1945 quando, in occasione delle celebrazioni della ribellione antipapalina del XX giugno 1859 (ma è anche il primo anniversario della Liberazione di Perugia) l’intreccio tra vecchi socialisti “giolittiani” e massoneria diventa un bersaglio polemico dei giovani della sinistra del Psiup, che impongono l’espulsione dal partito di alcuni notabili e la netta distinzione tra massoneria e cultura socialista. Binni, considerato un traditore dai massoni perché nato e cresciuto in un ambiente aristocratico e borghese che alla massoneria umbra aveva dato importanti rappresentanti, è oggetto di attacchi trasversali ai diversi schieramenti politici ma tutti facilmente riconducibili alla mafia massonica. Lo attaccano in quanto intellettuale (ma quest’accusa riguarda anche Capitini), per aver collaborato con articoli di critica letteraria a riviste del regime fascista come «Primato» diretta da Bottai; per questa ragione il giornale di area democristiana «Il Popolo dell’Umbria» lo accusa di fascismo e di trasformismo. Sono le prime avvisaglie della denigrazione qualunquista degli antifascisti, in una città in cui i vecchi marpioni del notabilato locale, passata la tempesta, riprendono a spargere i loro veleni in nome della continuità dello Stato e dei poteri. Una Precisazione su «Il Socialista» del 10 maggio 1945, firmata da Capitini, Alfredo Abatini, Averardo Montesperelli, Alberto Apponi e altri rappresentanti dell’antifascismo umbro, denuncia «il modo subdolo, anonimo e falsificatore nel condurre la lotta politica contro persone e idee», ricordando il ruolo attivo di Binni nella cospirazione antifascista dal 1936 e la sua statura di critico letterario di rilevanza nazionale[39]. Binni è stupito e indignato, ma ha chiaro il quadro della situazione e la sua risposta è un impegno ancora piú deciso nel lavoro politico all’interno del Psiup, sulla linea di «Iniziativa socialista». Le conseguenze non si fanno attendere: nell’agosto del 1945 «mi giunse l’avviso del Ministero (dalla Direzione Generale dell’Istruzione Tecnica da cui dipendevo e dove era Direttore Generale un massone, fratello di un potente massone italo-americano – Micacchi –, della cessazione del mio comando all’Università per Stranieri e del mio obbligo a riprendere servizio entro un mese all’Istituto Tecnico di Pavia»[40]. Questa decisione viene poi annullata grazie a un intervento diretto di Carlo Ludovico Ragghianti, sottosegretario alla Pubblica Istruzione del governo Parri, e a Binni viene rinnovato l’incarico all’Università per Stranieri.

Nella primavera del ’46 io ero diventato sempre piú il leader del Psiup a Perugia: con l’aiuto di Bruno Enei, di Mori padre e di Mori figlio[41] e di altri giovani (Bazzucchi, ecc. ecc.) condussi la battaglia per le elezioni comunali che videro il Psiup al primo posto (anche mia moglie fu eletta consigliera comunale e mi acquistò molte simpatie con la sua intelligenza, freschezza, semplicità) e quella, in prima persona, per il Referendum e per le elezioni all’Assemblea Costituente, mentre con il metodo dell’“attacco”, riuscivo, con i miei compagni, a spazzar via i socialmassoni piú scoperti […][42].

Chiaro, duro, intransigente, oratore efficacissimo, nei suoi continui interventi nelle sezioni del partito, nei comizi, nelle conferenze di formazione politica, Binni sa comunicare la sua passione e il suo entusiasmo; è un “persuaso” consapevole delle difficoltà della Storia ma, a maggior ragione, della necessità di forzarne i limiti, di spingere per un reale rinnovamento di una politica tradizionalmente delegata dalle classi popolari ai gruppi dirigenti della borghesia. Nell’ultimo numero del «Corriere di Perugia», il 17 maggio 1945, ha scritto nell’articolo Verso la Costituente:

Noi non crediamo che i tre punti essenziali che il popolo dovrà ottenere dalla Costituente (pena in caso contrario il proprio suicidio) e cioè Repubblica, Riforma agraria, Socializzazione delle grandi industrie, potrebbero essere facilmente raggiunti senza una lotta precedente, senza una chiarificazione inequivoca e veramente democratica. Non si prepara una soluzione repubblicana, non si preparano le grandi riforme difendendo i principî piú retrivi e mantenendo il popolo nell’ignoranza politica. Non si prepara la Costituente insegnando al popolo un’imbelle disciplina e una servile attesa di decisioni dall’alto.

Nei numerosi articoli su «Il Socialista», tra 1944 e 1946, affronta le questioni di fondo della situazione politica italiana, sempre attento al contesto europeo, alle esperienze dei socialisti francesi, del laburismo inglese: la scrittura è strumento di informazione e formazione in una prospettiva precisa. E il luxemburghismo di molti giovani del Psiup, che Binni condivide, si coniuga facilmente con le esperienze di democrazia diretta che i Cos di Capitini tentano di sviluppare nonostante le prevedibili difficoltà. È significativo, a questo proposito, un articolo che Binni pubblica sul periodico lucchese «Democrazia Socialista» il 20 gennaio 1946, Uno strumento della nuova democrazia[43], in cui scrive proprio dell’esperienza perugina del Cos:

Di fronte alla cosiddetta democrazia liberale del primo Novecento italiano (quella a cui Parri negava il diritto del nome e del contenuto democratico) esercitata dai prefetti, dai questori, dai carabinieri, a tutela di un ordine reazionario e capitalistico, l’esperienza tragica del fascismo, che dovrebbe aver tolto ogni illusione sulla vera natura delle forze conservatrici e distinto con brutale evidenza i fatti dalle parole, ha fatto sorgere negli elementi intellettuali migliori e nel popolo l’esigenza di una vera democrazia, diretta, basata sulla reale partecipazione di ogni cittadino all’amministrazione, al controllo della cosa pubblica. Mai come ora dopo un’orgia di sciocco centralismo, di oppio conformistico, di esecuzione indiscussa degli ordini “romani” si è sentito in Italia il bisogno essenziale di organismi popolari che non siano d’altronde semplice espressione di particolari interessi di categoria chiusi come compartimenti stagni e accanto ai quali gruppetti di intellettuali diano vita a discussioni accademiche, a esercitazioni teoriche sradicate dalla realtà viva di ogni giorno. E la stessa formula dei Comitati di Liberazione Nazionale, che tanta vitalità hanno avuto nella lotta clandestina e nella prima fase della vita democratica, non è riuscita ad assolvere quella funzione di autoeducazione popolare e di periferico autogoverno che il mondo moderno, avviato alla soluzione socialista, pone in termini cosí precisi ed impellenti. In una città dell’Italia centrale, a Perugia, cadevano ancora i proiettili dell’artiglieria nazista quando già nella sala della Camera del Lavoro, alla luce fantomatica di una lampada a gas si radunavano operai, impiegati, studenti, donne non per ascoltare una conferenza, ma per discutere liberamente tutti i problemi immediati e lontani, amministrativi e politici che la situazione poneva a loro come abitanti di quella particolare città, come italiani, come uomini e donne di un mondo assetato di una concreta, precisa libertà. Altre donne, altri uomini, di strati sociali “piú alti” preparavano ricevimenti e balli per gli ufficiali dell’A.M.G., politicanti di altri tempi preparavano combinazioni adatte a mantenere quella protezione di vecchi interessi e di vecchi privilegi che con nuove parole fa corrispondere ad un’illusoria libertà una sostanziale oppressione […].

È la prima riunione del Cos promosso e organizzato da Capitini il 15 luglio 1944. Binni ne parla nel gennaio del 1946, quando su quell’esperienza si sono da tempo concentrati i malumori e le denigrazioni della destra ma anche dei partiti della sinistra che hanno una concezione diversa della politica e alla generosità democratica di Capitini (l’embrione di quella che definirà «omnicrazia», il potere di tutti) oppongono il “realismo” di una politica come prerogativa di apparati e gestione dell’esistente. Eppure Binni insiste e propone una feconda integrazione tra i Cos, che grazie all’opera di Capitini e di molti collaboratori «si sono diffusi ormai in Umbria, in Toscana, nel Lazio, nelle Marche», e il partito socialista:

Se il Socialismo e il Partito socialista rappresentano gli interessi vivi e concreti del popolo lavoratore e operano per una rivoluzione radicale che come sua mèta ha quella società libera ed eguale in cui, secondo le parole di Marx, «il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti», è naturale che una simile istituzione possa apparire uno strumento efficacissimo di lotta e di educazione che noi, democratici e rivoluzionari, concepiamo inscindibili, continue, inesauribili. Accanto alla struttura sempre piú organizzata e combattiva delle sezioni che lottano per la conquista proletaria del potere, questi organismi aperti significano un aumento di azione dell’idea socialista, una sua realizzazione concreta e fin d’ora attuale che porterà su di un piano sempre piú preciso e sempre piú umano la formazione della nuova civiltà socialista[44].

6. All’Assemblea costituente

Dal maggio 1946 Binni inizia la sua collaborazione alla rivista «Europa Socialista», diretta da Ignazio Silone, con un articolo dedicato alla Costituente, Storia, non avventura[45]. Siamo in piena campagna elettorale e Binni è candidato per la circoscrizione Perugia-Terni-Rieti; nonostante che la Federazione del Psiup gli abbia contrapposto un altro candidato, viene eletto. L’articolo su «Europa Socialista» è una sintesi delle sue aspettative nei confronti di un passaggio storico che considera profondamente rivoluzionario: la Costituzione potrà rappresentare una svolta radicale nella storia d’Italia delineando un quadro istituzionale che garantisca e promuova il libero sviluppo di ognuno in una società di tutti. La sua formazione liberalsocialista e la sua esperienza di partito si incontrano facilmente con la sua dimensione di intellettuale e studioso, e la Costituente ha bisogno di energie di questo tipo. In effetti, anche negli anni di impegno politico militante, a Perugia e in Umbria, tra 1944 e 1946, la sua attività di critico e storico della letteratura non si è mai interrotta, collaborando a riviste nazionali come «La Nuova Europa», Roma, «Aretusa», Pisa, «Il Mondo» e «Letteratura», Firenze; del 1946 è il III volume (Ottocento e Novecento) di Scrittori d’Italia, storia e antologia della letteratura italiana (i primi due volumi sono di Natalino Sapegno e Gaetano Trombatore) su cui si formeranno intere generazioni di docenti e studenti. Considera il suo impegno politico la conseguenza necessaria del suo impegno di intellettuale, e la tensione tra politica e letteratura, tra militanza e studio, è fonte di energia e intelligenza.

Alla Costituente ritrova molti compagni della cospirazione antifascista, schierati nei diversi partiti della sinistra (socialisti, comunisti, azionisti) ma generalmente uniti da un comune impegno di progettazione del nuovo Stato repubblicano e democratico. Trova anche logiche di partito che spesso prevalgono sulle qualità dei singoli costituenti, dinamiche compromissorie e tatticismi ai quali si sente e vuol essere estraneo. Lo scontro con le destre è tenace e continuo, ma il confronto anche in questo caso è frequentemente vitale. Deputato dell’Umbria, mantiene relazioni con Sindaci e amministratori, presenta interrogazioni, segue pratiche umbre nei vari ministeri, ma è soprattutto il dibattito sulle questioni generali a interessarlo. È un impegno faticoso. Le sedute dell’Assemblea costituente spesso si protraggono anche la sera fino a tarda notte; con i treni del tempo, torna a Perugia la notte del sabato e riparte per Roma all’alba del lunedí, e a Perugia ancora incontri e riunioni. Da Roma si mantiene in rapporto epistolare con Capitini, e il fitto carteggio rende conto dei tanti aspetti dell’esperienza parlamentare: gli incontri, gli scontri, gli entusiasmi e le frustrazioni. A Perugia Capitini, commissario dell’Università per Stranieri, si trova in sempre maggiori difficoltà: l’indiscutibile successo della sua gestione politico-culturale gli procura inimicizie e ostilità nel borghese “natio borgo selvaggio” e l’ambiente massonico riesce, nel dicembre del 1946, a farlo destituire dall’incarico, nell’indifferenza dei partiti della sinistra. Inutili sono i tentativi di salvataggio che Binni compie a Roma coinvolgendo Nenni e Parri. Espulso da Perugia, dal 1947 Capitini torna a Pisa, nel ruolo amministrativo di segretario della Scuola Normale Superiore da cui era stato cacciato nel 1933.

A Roma, nel febbraio del 1947, il duro confronto all’interno del Psiup tra Nenni e Saragat produce la scissione di Palazzo Barberini e la nascita del Psli. Binni è contrario alla scissione ma deve prenderne atto: in una lettera a Capitini[46] scrive:

[…] Sul P.S. con falce e martello e libro[47] o falce e martello e frecce[48]: io resto fuori dall’uno e dall’altro insieme a Silone. Sono stanco di dovermi accomodare in soluzioni che non mi soddisfano pienamente. Il vecchio PS è un letamaio, ma il nuovo è ricco di difetti e tranelli. Se altri sentiranno le nostre esigenze potremo essere la base aperta per discussioni e per un futuro rifluire di forze da una parte e dall’altra. L’idea di Silone di raccoglierci intorno con un settimanale «Europa Socialista» e di mantenerci nel dialogo socialista come forza viva e indipendente interessa anche gli azionisti con cui abbiamo parlato. Io penso che dovrebbe interessare anche te: Cos, iniziative, formazione di quadri politici ecc. potrebbero ben prosperare in questo gruppo. Non sarebbe un terzo P.S., ma potrebbe anche (questa è idea mia) diventare la base feconda di un vero P.S. con le forze di Iniziativa[49] deluse forse dall’alleanza con Critica[50] e di quelle genuinamente socialiste che restano ora nel vecchio P.S.

Binni non aderisce né al Psi né al Psli, anche se entra, da indipendente, nel gruppo parlamentare del nuovo partito di Saragat; ed entra nella redazione di «Europa Socialista», la rivista di Silone che svolge un ruolo di laboratorio teorico e politico-culturale, con importanti collegamenti internazionali. Gli articoli che Binni pubblica sulla rivista sono numerosi e in stretto rapporto con l’attività parlamentare che lo vede particolarmente impegnato sulle tematiche della scuola pubblica (nell’ottobre del 1946 è stato tra i fondatori dell’Associazione per la Difesa della Scuola Nazionale, con Capitini, Dina Bertoni Jovine, Concetto Marchesi, Ernesto Codignola, Emma Castelnuovo, Luigi Russo, Gastone Manacorda, Ernesto De Martino e molti altri), della laicità dello Stato e della libertà religiosa; il 17 aprile 1947 interviene in aula In difesa della scuola nazionale[51]), esponendo compiutamente la posizione della sinistra sul ruolo centrale della scuola pubblica nella costruzione di una vera democrazia in Italia. Tra marzo e aprile ha pubblicato, su questa tematica, quattro articoli: su «Europa Socialista» Scuola e Costituente[52], su «Mercurio» Scuola e Costituzione[53], su «Il Mondo europeo» Libertà della scuola[54], su «Il Nuovo Corriere» Scuola e Costituzione[55], affrontando la questione della scuola sotto i vari aspetti, storici, educativi e politici.

È una grande battaglia culturale e politica che oppone concezioni e posizioni profondamente diverse tra la sinistra, il partito dei cattolici e la destra liberale. Alla Dc che intende aprire, nella Costituzione, un varco al finanziamento pubblico delle scuole private confessionali, “libere” e “parificate”, la sinistra oppone la centralità di una scuola pubblica che garantisca la formazione democratica di tutti i cittadini, riconoscendo alle scuole private di ogni genere il diritto di esistere ma «senza oneri per lo Stato», un comma fondamentale che l’impegno di vari parlamentari, tra cui Binni, Tristano Codignola, Concetto Marchesi, Ferdinando Bernini, forti delle loro alte competenze sul problema, riescono a inserire nell’articolo 33 della Costituzione. Ma lo scontro è veramente duro, e per questo Binni il 17 aprile interviene In difesa della scuola nazionale, minacciata nella sua identità di strumento fondamentale dello Stato democratico. È solo l’inizio di una lunga battaglia che nel corso dei decenni successivi vedrà proseguire gli attacchi alla scuola pubblica da parte dei governi democristiani, “rinnovati” in chiave liberista, e che vedrà costantemente impegnato il Binni docente universitario e intellettuale, anche contro i colpevoli cedimenti della sinistra. Nel 1947 Binni ha infatti molto chiaro che su quel terreno si gioca la prospettiva di un reale cambiamento della società italiana, di una possibile vera discontinuità con lo Stato prefascista e fascista, della piú concreta possibilità di liberare le classi popolari dalla subalternità culturale a qualunque potere politico.

Il 1947 è anche un anno particolarmente intenso per la produzione del Binni critico e storico della letteratura: nel corso dell’anno, mentre si susseguono articoli politici su «Europa Socialista»[56], «Mercurio»[57], e articoli e saggi di critica letteraria sulla «Rivista di letterature moderne», «Belfagor», «La Fiera letteraria», «Rassegna d’Italia», pubblica tre volumi, Preromanticismo italiano, La nuova poetica leopardiana, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, in cui il metodo dello studio delle poetiche, a superamento dello storicismo positivista e del crocianesimo, trova le sue prime importanti applicazioni. In Preromanticismo italiano, il Binni settecentista opera un organico disegno dell’«aggrovigliato e fecondo periodo del secondo Settecento italiano»[58] introducendo la nozione storico-letteraria di preromanticismo «che insieme cercava ed evidenziava nessi e passaggi intorno e all’interno del fenomeno preromantico e procedeva ad offrirne una storicizzazione per rottura e continuità dialettica rispetto alle precedenti poetiche settecentesche»[59], con una nuova attenzione al complesso intreccio tra poetiche di autori maggiori e minori, tra poetiche e culture. In Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, autore al quale Binni ha già dedicato nel 1938 un commento del Furioso nell’antologia I classici italiani diretta da Russo, e saggi successivi su riviste, viene tracciato un «ritratto interiore dell’Ariosto che appariva finalmente uomo-poeta, dotato di un senso delle “cose” attivo e penetrante, base vitale del suo slancio poetico a un sopramondo meglio precisato come rinascimentale (anche se un Rinascimento troppo burkhardtiano) non solo nelle misure artistiche, ma anche nelle forme letterarie»[60], ricostruendo organicamente la personalità e la poetica dell’Ariosto e stabilendo nuove connessioni critiche tra il Furioso, le Satire e le lettere. Ma è con La nuova poetica leopardiana che il metodo di Binni centrato sulla nozione di poetica produce risultati di vera svolta critica; scriverà Binni nel settembre 1997, nella premessa all’ottava edizione del volume[61]:

Questo libro, nato nel 1947, quando ero deputato all’Assemblea Costituente, riprendeva a nuovo livello di maturità critica una prima interpretazione dell’ultimo, grande periodo della poesia leopardiana da me individuato in un lavoro universitario del 1933-34 discusso con Attilio Momigliano. Esso aprí una lunga fase della critica leopardiana spezzando l’interpretazione allora egemone, in chiave esclusivamente idillica e puristica, e originando una vasta raggiera di nuove interpretazioni. Da allora si tese infatti a valorizzare sempre piú la forza dirompente della poetica energica, eroica degli ultimi canti, rivendicando (come feci piú tardi io stesso nel saggio del ’73 La protesta di Leopardi) la modernissima radice di una poetica che coniuga pensiero e poesia in un progetto totale di intervento nella storia.

Ma La nuova poetica leopardiana ha anche delle implicazioni di ordine politico: sottraendo Leopardi alle tradizionali letture idilliche e superando la dicotomia crociana tra poesia e non poesia che colpiva soprattutto l’ultimo Leopardi della Ginestra e del suo messaggio materialistico e progressista (nello stesso anno Cesare Luporini pubblica il saggio Leopardi progressivo), lo inserisce pienamente nel necessario retroterra culturale di una sinistra che si assuma la responsabilità di riscrivere la storia, letteraria, filosofica, culturale.

A questi tre importanti volumi del 1947 Binni ha lavorato contemporaneamente al suo impegno di costituente, rifugiandosi nella biblioteca della Camera tra un’assemblea e l’altra, tra riunioni e incontri, a scrivere e correggere bozze. Singolare coincidenza, in quella biblioteca ritrova, attraverso i ricordi di alcuni vecchi inservienti, la presenza di Augusto Agabiti, lo zio materno, scrittore e teosofo, che ne era stato segretario all’inizio del secolo. Nella primavera del 1947 in una lettera a Capitini esprime il suo stato d’animo sulla sua condizione di parlamentare, nei mesi successivi alla scissione di Palazzo Barberini e alla piú generale situazione della Costituente, tra consolidamento delle posizioni democristiane, tatticismo comunista (il dibattito sull’articolo 7 produce grandi lacerazioni a sinistra), e diaspora socialista:

È molto difficile salvare il “punto rivoluzionario” e insieme la concretezza ecc. E poi la politica richiede, cosí com’è, un abito di sopraffazione e di furberia che io non posso sopportare. E dunque… alle Muse! E ad un atteggiamento etico-politico che non si risolva su piano parlamentare ecc. Qui ad ogni modo Silone si deciderà a proporre la federazione: ne vedremo i risultati[62].

Il tentativo di «Europa Socialista», dal febbraio 1947, è infatti la costruzione di un’area di dialogo e confronto tra le diverse posizioni, nella prospettiva di una riunificazione delle varie componenti del socialismo italiano, non riuscendo tuttavia a incidere sui rapporti tra Psi e Psli che seguiranno strategie sempre piú diversificate rispetto ai governi a direzione democristiana. Binni condivide il tentativo di Silone, e l’obiettivo di una riunificazione dell’area socialista rimarrà per lui costante negli anni successivi, fino agli anni sessanta. Per il momento prosegue da socialista indipendente nel suo impegno parlamentare, e nel confronto politico a sinistra, ma è sempre piú orientato a dedicarsi esclusivamente alla sua attività di studioso e critico letterario. Lo spingono verso questa scelta anche i contraccolpi della scissione socialista a Perugia e in Umbria; anche a causa della forzata assenza di Binni da Perugia, la rete di relazioni che aveva attivamente contribuito a costruire si indebolisce rapidamente. Naufragata l’ipotesi siloniana di una federazione, il tentativo di Ivan Matteo Lombardo, nel febbraio 1948, di insistere sul tema della riunificazione attraverso l’Unione dei Socialisti, alla quale Binni aderisce diventandone il coordinatore regionale, non produce grandi risultati.

Binni, che come ultimo atto di parlamentare della Costituente, nella sua ultima seduta del 31 gennaio ha commemorato la morte di Gandhi con un intervento[63] che ha incontrato la condivisione di Umberto Terracini, presidente della Costituente («l’onorevole Binni ha interpretato il pensiero – e piú che il pensiero – il sentimento di tutta l’Assemblea»), con una dichiarazione pubblica alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, quando in Umbria l’Unione dei Socialisti e il Psli hanno dato vita a una lista di Unità Socialista, chiarisce ai socialisti umbri delle varie formazioni politiche la sua decisione di non ripresentare la propria candidatura, data

l’inconciliabilità […] di un’attività parlamentare e di un lavoro letterario ugualmente impegnativi […] Nulla di strano […] in una scelta di questo genere, specie per chi alla politica è spinto da ragioni morali e non da amore tecnico dell’attività politica: nulla di strano se non per coloro che nelle attività di partito vedono solo una “carriera”, una possibilità di potenza, di sfogo ambizioso e magari una sistemazione non disprezzabile. Ma la mia rinuncia ad una attività parlamentare non implica affatto l’abbandono di posizioni ideali a cui non mancherà mai la mia adesione attiva e disinteressata. Posizioni ideali di socialismo democratico, capace di una propria politica che non si può confondere con quella di nessun altro partito, a cui rimasi fedele dopo la scissione del Psiup lavorando insieme ad Ignazio Silone, alla Costituente e fuori, per la riunione di tutte le forze autenticamente socialiste. Questo lavoro è culminato all’inizio dell’anno nella creazione dell’Unione dei Socialisti il cui segretario è I. M. Lombardo, e nella presentazione di una lista di Unità Socialista a cui partecipa il Psli e l’Unione ed a cui va la simpatia di molti compagni rimasti nel Psi ma sempre piú in dissenso con la politica liquidatoria della direzione nenniana. È a quella lista che ho dato il mio appoggio ed è soprattutto all’Unione dei Socialisti (la quale deve costituire la premessa aperta e non settaria di un vero grande partito socialista di cui l’Italia ha estremo bisogno) che io do la mia attività, sicuro che molto presto tutti i compagni sinceramente socialisti si troveranno insieme con noi nella costituzione di una forza veramente socialista e progressiva, veramente pacifica, libera e rinnovatrice che si può servire soltanto con una lotta generosa e dura, ma senza gusto di violenza, di menzogna, di sopraffazione, o di tattica compromissoria[64].

Il 7-8 maggio del 1948 Binni partecipa al II convegno nazionale dell’Unione dei Socialisti, a Roma, e interviene per il gruppo di «Europa Socialista»; ricorda che il suo gruppo fin dal momento della crisi del Psiup volle rimanere indipendente «per testimoniare l’insoddisfazione per la divisione del socialismo e per lavorare alla costituzione di un vero partito socialista egualmente lontano dallo sterile massimalismo e dal collaborazionismo con le forze conservatrici» e propone di lavorare per la convocazione di una «costituente del socialismo» a seguito «dei risultati raggiunti in sede di Congresso nazionale dalla corrente autonomista del Psi»[65]. La prospettiva di trasformare una situazione di crisi, accentuata dagli esiti delle elezioni del 18 aprile, in opportunità per un rilancio della presenza socialista su nuove basi teoriche e organizzative è intellettualmente coraggiosa, ma non fa i conti con la dura realtà della situazione: il Psli si sta avviando alla collaborazione con la Dc, il Pri, il Pli, rompendo il fronte della sinistra; gli autonomisti del Psi sono una forza minoritaria e per ora ininfluente, mentre il partito, nella gestione di Nenni e Basso, attua pratiche fusioniste con il Pci; gli azionisti sono ormai dispersi da almeno due anni, e si vanno spesso orientando verso il Pri; i gruppi della diaspora socialista che insistono per la riunificazione sono facilmente accusati di astrattezza intellettuale e costretti all’isolamento. La scelta di Binni di dedicarsi totalmente alla sua attività di studioso, e di svolgere il suo ruolo politico come intellettuale e insegnante corrisponde anche a una necessità, in un paese in cui le speranze di radicale cambiamento del 1943-47 si vanno rapidamente allontanando.

7. A Genova

Nel dicembre 1948 Binni, vincitore di un concorso universitario, è nominato professore straordinario di Letteratura italiana presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Genova. Lascia Perugia, e il distacco è doloroso: la notte prima della partenza ne ripercorre le strade

[…] solo e meditabondo a contemplare la città e il paesaggio scuro e montuoso fra Monte Ripido e Monte Tezio e a dipanare i tanti ricordi dell’infanzia, dell’adolescenza, della gioventú che con quella partenza mi pareva già finita (avevo trentacinque anni) o destinata ad esser ripresa tutta da capo in quella veste di “professore” che mi sembrava troppo stretta per la varietà intrecciata di impegni che avevo vissuto da Perugia, a Roma, Firenze, Pisa, Pavia, Milano e altrove, ma sempre con la primaria residenza e cittadinanza perugina […].

[…] sulla Torre della Porta S. Angelo (c’era uno dei molti circoli socialisti che io avevo contribuito a creare) […] ripensavo alle semplici, schiette feste che proprio su quel torrione intorno alla rossa bandiera con la falce, il martello e il libro si erano svolte con compagne e compagni socialisti e comunisti, con i loro cari volti a cominciare da quello soavissimo di Maria Schippa comunista a quelli fraterni di Bruno e Maria Enei socialisti, i piú amati dalla mia compagna. E sentivo, fra attrazione e malinconia nostalgica, che quella era la svolta decisiva della mia vita di uomo maturo. La mia sorte mi portava altrove, non sarei piú tornato a vivere e a lavorare a Perugia […][66].

Per avvicinarsi alla sede d’insegnamento, si trasferisce a Lucca, la città di sua moglie, nel cinquecentesco palazzo Bernardini[67]. Insegnerà a Genova fino al 1956, per poi passare all’Università di Firenze. Risiede a Genova per alcuni giorni la settimana:

[…] degli anni genovesi – dirà in un’intervista del 1994 – ho un ricordo bellissimo e la fatica dei tantissimi viaggi compiuti ormai non mi torna piú alla memoria. Intanto a Genova mi trovavo benissimo per il clima; ripenso ancora con piacere alle notte quando si cominciava ad alzare la tramontana, vento che soffia anche a Perugia e dunque mi è familiare: mi prendeva una grande allegria, sentivo una forte tensione ad agire; la tramontana è metafora di vitalità creativa, quasi di poesia. E a Genova ho trovato le condizioni ideali per lavorare molto e con soddisfazione con i miei scolari migliori. Cercai subito di instaurare un clima poco accademico; credo che gli studenti cogliessero con favore l’eco del mio impegno civile, del mio antifascismo e della partecipazione alla Costituente, tanto che attorno a me si costituí un gruppo di giovani, alcuni dei quali non erano neppure studenti di Letteratura Italiana. Tutto questo non esclude però che il mio esame fosse considerato tra i piú duri; ci volle un bel po’ prima che, dopo una lunga serie di voti bassi intorno al 20-21, potessi dare finalmente un 30 (lo ebbe Giorgio Calcagno, poi brillante giornalista a «La Stampa») e addirittura un 30 e lode, che diedi a Giovanni Ponte, ora ottimo docente dell’Ateneo genovese […][68].

A Genova Binni forma una scuola di critica letteraria, e nella didattica confluiscono direttamente i risultati del suo lavoro di studioso settecentista e ottocentista (il primo corso dell’anno accademico 1948-49 è dedicato al neoclassicismo settecentesco, per poi lavorare su Foscolo negli anni 1949-1951, sull’Arcadia nel 1951-52, sul teatro comico del Settecento nel 1952-53, sull’Alfieri nel 1953-55, su Monti nel 1955-56) mentre si moltiplicano i contributi critici anche di contemporaneistica su riviste («Belfagor», «Letteratura e arte contemporanea», «Ulisse», «La Fiera letteraria»…) e attraverso volumi: del 1949 è un’edizione di Alfieri, Giornali e lettere scelte[69], nel 1951 Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento[70] in cui raccoglie saggi e articoli già pubblicati su riviste e inediti, Tre liriche del Leopardi[71] e Storia della critica ariostesca[72], nel 1953 un’edizione del Giacomo Leopardi di De Sanctis[73]; a questo periodo appartengono anche varie antologie letterarie per la scuola, in collaborazione con Lanfranco Caretti, e la direzione di un importante progetto editoriale, I classici italiani nella storia della critica[74]. Ma è soprattutto l’organizzazione e direzione di una propria rivista letteraria, dal 1953, a impegnare Binni e la scuola genovese che si è formata:

[…] Alla mia vita universitaria genovese si collega la rifondazione della «Rassegna della letteratura italiana», la prestigiosa rivista chiusa nel 1948 dopo la morte del direttore e proprietario, prof. Pellizzari. Fu proprio grazie all’entusiasmo – ricordo che facevano spesso la spola con Borgo S. Dalmazzo, dov’era la tipografia – dei miei migliori scolari genovesi (Croce, Rotta, Ponte, Scrivano, Manciotti, Boscardi e altri ancora) che nel 1953 poté rinascere la rivista – la cui testata avevo ricevuto generosamente dagli eredi di Pellizzari – come pubblicazione dell’Istituto universitario del Magistero, tanto che il direttore responsabile ne era il suo segretario, Gian Luigi Queirolo. Oltre a questa esperienza editoriale nata proprio dalla collaborazione con i miei studenti, ricordo anche che alcune commedie del primo ’700 oggetto di un mio corso furono rappresentate in un teatro cittadino, cosí come un gruppo di studenti mise in scena Olimpiade del Metastasio, che pure era stato argomento di mie lezioni […][75].

Nell’editoriale del primo numero della nuova «Rassegna della letteratura italiana» Binni ne dichiara l’identità e gli obiettivi: sarà uno strumento di informazione rigorosa e di aperto confronto critico sulle questioni di metodologia:

[…] Ci sembra infatti che, mentre sempre piú forte si avverte l’esigenza di un lavoro informatissimo e storicisticamente sicuro, lontano dalle improvvisazioni impressionistiche, dall’arbitrarietà (aprioristica, avrebbe detto il De Sanctis) e dalla tendenziosità incontrollata, sia sempre piú chiara la necessità di un largo esame delle varie correnti metodologiche nelle loro esigenze peculiari e nella possibilità di un loro dialogo efficace e stimolante. Non si tratta certo di una assurda proposta di “concordantia discordantium canonum” (ché anzi è fin troppo chiaro il rischio di un eclettismo senza impegno personale e senza il rischio generoso della ricerca nuova e coraggiosa), ma si accenna invece al vantaggio di una conoscenza sempre piú individuata dei problemi piú vivi e consistenti, di una valutazione di quanto, in una cultura aperta e consapevole, anche diverse tendenze possano utilmente offrire ad un lavoro caratterizzato, ma non settario. E basti indicare come, anche in critici tutt’altro che incerti, sia da tempo visibile un avvicinamento tra filologia e critica, tra senso storicistico e ricerca di stile e come, pur nei diversi orientamenti, la conoscenza del problema critico nella sua storia e delle condizioni storiche in cui un’esperienza artistica si è svolta, costituisca da tempo comune presupposto di ogni studio critico.

Perciò la Rassegna terrà ad accogliere, su di una sicura base di serietà e di rilievo critico non generico, contributi che rappresentino vive esigenze della nostra cultura critica e mirerà nelle recensioni e nei notiziari a dare chiaro rilievo alle posizioni critiche, storiografiche e filologiche implicite nelle opere esaminate sperando di collaborare cosí ad un chiarimento oltre che ad una accurata informazione.

La nostra rivista riprende la sua rinnovata attività in un periodo assai ricco di operosità, dopo gli anni che condannarono tanti studiosi al silenzio e privarono gli studi di tante forze giovanili che la guerra e le sue tragiche conseguenze allontanarono da ogni ordinato e impegnato lavoro. E se non oseremo certo adoperare accenti di idillio per una realtà che non può non lasciarci insoddisfatti e per un’epoca che può apparire piú di speranze che di conclusioni, non vorremmo neppure privare questa nostra modesta iniziativa in un campo tecnico-culturale del suo significato di fiducia nella serietà e continuità della cultura e del lavoro, sempre intimamente legata alla fiducia nella serietà e continuità della vita. Cosí come il vuoto terribile lasciato, nel tristissimo 1952, con la scomparsa di grandi critici e di studiosi insigni (da Croce a Momigliano, da Pancrazi a Calcaterra e Borgese, per citare solo i maggiori) non ci induce tanto al compianto di cosí valide forze perdute, quanto al concreto omaggio ad esse del nostro lavoro e dello stimolo che la nostra rivista vuol rappresentare nel campo in cui quegli amici e maestri dettero alta lezione di cultura e di umanità[76].

A fianco dell’intenso lavoro universitario e scientifico, e all’impegno per la rivista (dove redige assiduamente la sezione di recensioni sul Settecento, una miniera di microsaggi critici), Binni è attivo nella vita culturale e politica della città: è presidente della sezione genovese dell’Associazione per la Difesa della Scuola Nazionale che ha contribuito a fondare nel 1946 con Capitini e altri, e che interviene puntualmente sul terreno del conflitto tra docenti di area cattolica e docenti di area laica e progressista nell’Italia confessionale degli anni cinquanta; partecipa, con conferenze e incontri, all’attività della locale «Società di cultura» che ha contribuito a costituire. Costante resta il rapporto con Capitini, che incontra frequentemente a Pisa e a Lucca, e con cui mantiene una fitta relazione epistolare. Mantiene i rapporti con numerosi socialisti della diaspora, con alcuni compagni e amici perugini (del 1955 è la ricostruzione storica Il XX giugno 1859 nel Risorgimento italiano[77], il primo di una serie di scritti perugini e umbri con cui Binni testimonierà il suo legame profondo con la sua città), segue con attenzione le vicende organizzative delle varie formazioni socialiste; nel 1949 ha partecipato, con Silone e Codignola, alla fondazione del Partito Socialista Unitario nato dalla confluenza dell’Unione dei Socialisti e della sinistra del Psli (Mondolfo, Faravelli) con il gruppo di Romita uscito dal Psi, ma ne ha rifiutato la successiva confluenza nel Psli, restando convinto che una riunificazione dell’area socialista in una prospettiva radicalmente riformatrice sia necessaria, ma non certo su una linea genericamente anticomunista e attivamente “atlantica”.

Sono anni di grande lavoro, di grande passione intellettuale, ma anche di sforzo e fatica; per far fronte a un impegno sempre piú gravoso, di organizzatore culturale e di autore (a Lucca, nella città “bianca” della Toscana, bellissima ma angustamente provinciale e reazionaria, è un isolato nonostante alcune amicizie intellettuali, con Augusto Mancini, Enrico Pea, Mario Tobino, Felice Del Beccaro, Giuseppe Ardinghi e pochi altri), lavora ininterrottamente; l’estate si porta in vacanza, in genere sulle Dolomiti, un baule pieno di libri, per poter lavorare ancora di piú e meglio, libero dagli impegni universitari. La condizione di sforzo a cui si sottopone produce momenti di stanchezza ma anche di grande tensione ed esasperata eccitazione, che accentua con il ricorso alla simpamina, al cui uso è stato iniziato dal suo maestro Luigi Russo.

8. Binni all’Università di Firenze, «socialista senza tessera»

Il 1956 è un anno di svolta. Viene chiamato all’Università di Firenze, al Magistero, nella cattedra del dantista Francesco Maggini. Per due anni il pendolarismo con Genova è sostituito da quello meno faticoso con Firenze. Nel 1958 passerà alla Facoltà di Lettere, alla cattedra da cui era stato cacciato Momigliano con le leggi razziali del 1938 e in cui era subentrato Giuseppe De Robertis, e si trasferirà a Firenze con la famiglia. Il 1956 è anche un anno, per Binni, di ripresa dell’attività politica organizzata. Nell’anno aperto dal XX congresso del Pcus, con la denuncia dei “crimini di Stalin” da parte di Kruscev, e che si chiuderà con l’intervento sovietico in Ungheria, l’area socialista affronta di nuovo la questione della riunificazione: Nenni, ormai su posizioni sempre piú autonomiste, si incontra nell’agosto con Saragat a Pralognan per gettare le basi di un possibile accordo; le varie riviste delle diverse tendenze ne discutono; Binni, nel corso dell’estate, promuove un movimento di «socialisti senza tessera» sulla base di un manifesto sottoscritto da Giuliano Vassalli, Piero Fornara, Pietro Beghi, Renzo Bianucci e altri socialisti a livello nazionale; il testo è di Binni, che è anche il referente organizzativo per le adesioni:

Alcuni socialisti che ebbero parte nella rinascita del socialismo in Italia e nella sua affermazione durante la battaglia per la Repubblica e la Costituzione e che, successivamente alla scissione del 1947, si allontanarono, in diversi momenti, dalla vita politica organizzata, si sono trovati d’accordo sulla urgente necessità della ricostituzione di un unico Partito socialista italiano che, accettando senza riserve il metodo ed il sistema democratico, persegua, con intelligenza e coraggio, con chiarezza ideologica e con sicura preparazione tecnica, lo scopo di una profonda trasformazione della società italiana.

Hanno perciò deciso, per parte loro, di stabilire un collegamento fra i numerosi socialisti attualmente “senza tessera”, allo scopo di farli partecipare attivamente, con la loro esperienza e con le esigenze maturate nello stesso loro distacco dai partiti, al processo unificativo in corso e si propongono, insieme, di promuovere, mediante opportune iniziative di discussione, di studio, di incontri fra di loro e con compagni dei varî partiti e movimenti socialisti organizzati, un’opera di chiarimento di principî ideologici, di metodi organizzativi, di problemi tecnici e politici, opera che essi considerano contributo essenziale ad una unificazione che non voglia risolversi in un compromesso tattico di non sicura efficacia e durata.

Rivolgono quindi un appello a tutti i socialisti “senza tessera” che condividano i fini sopraindicati, affinché diano, al piú presto, la loro adesione al lavoro proposto[78].

Il senso della proposta è chiaro: per avviare una riunificazione che non si risolva in un semplice accordo tra direzioni e apparati del Psi e del Psdi è necessario affrontare, in termini prima ideologici e culturali e quindi politici, la complessità di una proposta socialista complessiva e realmente unificante, per un vero cambiamento culturale e strutturale della società italiana. Le adesioni al manifesto sono numerose da ogni parte d’Italia[79] e il movimento dei «socialisti senza tessera» si prende il diritto di parola attraverso incontri nazionali (il primo a Firenze nel dicembre 1956), interventi su riviste e giornali, dichiarazioni, fino a decidere l’ingresso nel Psi dopo il congresso del 1958 a Venezia nel quale si afferma senza equivoci una linea di autonomia, dal Pci e dalla Dc, per un governo di centrosinistra che abbia come programma minimo l’attuazione della Costituzione.

A Firenze Binni trova un ambiente intellettuale e politico con il quale ha relazioni profonde dagli anni trenta: la Firenze della rivista di Alessandro Bonsanti, «Letteratura», del Gabinetto Vieusseux già diretto da Montale, del «Ponte» di Piero Calamandrei ed Enzo Enriques Agnoletti, del «Nuovo Corriere» di Romano Bilenchi, della Nuova Italia, la casa editrice diretta da Tristano Codignola; l’Università è ricca di presenze prestigiose, da Eugenio Garin a Delio Cantimori, da Gianfranco Contini a Cesare Luporini, da Ernesto Sestan a Roberto Longhi, da Lanfranco Caretti a Giorgio Spini, a Giacomo Devoto e tanti altri. Con gli ex azionisti del «Ponte» condivide il comune retroterra liberalsocialista, e l’area del Pci è in movimento dopo l’aggressione sovietica all’Ungheria; lo stesso mondo cattolico è agitato da fermenti di cambiamento, attraverso personalità come Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani. Cultura e politica, etica e politica, sono i termini di un confronto necessario e costante che si riflette immediatamente nel lavoro scientifico e nella didattica. È un ambiente intellettuale stimolante, schierato a sinistra, in cui l’Università, grazie ai suoi docenti migliori, svolge pienamente il suo ruolo di formazione delle nuove generazioni in rapporto dinamico con la società, la cultura e la Storia. A Firenze Binni porta la sua intensa esperienza di studioso, di docente e di militante politico della sinistra. Il suo impegno di critico letterario e storico della letteratura tende a precisare la sua personale posizione metodologica in un saggio del 1958, La critica letteraria[80] in cui, delineato un quadro delle varie tendenze della critica letteraria degli ultimi decenni, tra crocianesimo e sociologismo marxista, rileva «l’esigenza di un’interpretazione piú esauriente e rispettosa della realtà dell’opera e della personalità studiata, che implica tutta una complessa rivalutazione della piú sicura base di conoscenza filologica ed erudita, nonché di una maggiore tecnicizzazione dell’operazione critica attraverso il saldo possesso e l’uso di strumenti atti ad assicurare la massima penetrazione nella precisa esistenza espressiva del mondo poetico» saldando il lavoro dei filologi con quello dei critici e storici letterari «in una collaborazione che presuppone sempre piú uno scambio di esperienze e la coesistenza spesso delle due capacità nelle stesse persone, come è soprattutto il caso di Gianfranco Contini (interessantissimo esempio di unica personale lettura filologica e critica, di penetrazione in testi antichi e contemporanei, di originale linguaggio critico-tecnico)», in una prospettiva di storicismo rinnovato e dinamico:

È in tale direzione storicistica che a me pare debba segnarsi la piú valida strada di un’attività critica capace di superare le forme unilaterali del tecnicismo, dello stilismo, di rinnovati pericoli contenutistici e gli aspetti piú chiusi del crocianesimo […] evitando la […] scissione fra critica della letteratura del passato e critica della letteratura contemporanea a favore dell’unità dell’esperienza critica […] nella consapevolezza della forza che deriva al critico da una appassionata apertura alla problematica del proprio tempo (non solamente letterario), dalla sua sincera disposizione a sentire la letteratura contemporanea in una concreta e non cronistica determinazione dei suoi valori attivi e consistenti, e a farsi insieme contemporaneo alla letteratura del passato, ai suoi risultati poetici e alle loro condizioni storiche, rivivendo dal profondo la vitalità e la tensione al valore che ce la rende effettivamente vicina e comprensibile. Tale incontro fra un critico vivo nel proprio tempo e una letteratura non ricostruita archeologicamente, ma assicurata viva nei suoi valori, nelle sue aspirazioni, nel suo svolgimento complesso e dinamico, implica insieme la chiara subordinazione di ogni conoscenza strumentale e della certezza dei dati del compito fondamentale di ricostruire e far vivere nel nostro tempo la profonda realtà della poesia nella sua individuazione personale e nella sua espressione di una realtà storica a cui il piú rivoluzionario e originale dei poeti non manca mai di collaborare, specialmente quando reagisce ai suoi aspetti piú fermi ed esterni e, con il suo accento creativo e rinnovatore, ne porta in luce le esigenze piú profonde.

Lo strumento operativo del fare critica che Binni propone, sulla base della sua personale esperienza di studioso, è lo studio della «poetica» che

non riduce intellettualisticamente il valore originale della poesia, ma ne storicizza la concreta formazione e la vita dinamica nello studio della complessa tensione espressiva dei poeti e delle loro tendenze costruttive, del loro implicito ed esplicito prefigurarsi la traduzione poetica del proprio mondo interiore, delle proprie esigenze spirituali, culturali, storiche in contatto con le tendenze piú autentiche del loro tempo. […] Puntando su tale direzione di critica dinamica, e di studio della poetica, come linea concretamente storicizzabile e momento di confluenza commutativa di storia e di cultura nella prospettiva creatrice del poeta, appare inoltre possibile una attiva sintesi delle esigenze piú vive dell’attuale problematica.

Su questa linea di definizione del proprio metodo storico-critico, come proposta operativa ed aperta al confronto con altre posizioni metodologiche, Binni continuerà a lavorare, pubblicando nel 1960 sulla «Rassegna della letteratura italiana» il saggio Poetica, critica e storia letteraria[81], prima stesura dell’omonimo volume del 1963.

Il lavoro scientifico e didattico di Binni in questa nuova fase fiorentina è estremamente coerente con il ruolo del critico che ha delineato nel saggio metodologico del 1958; anche all’Università di Firenze, come in quella di Genova, persegue l’obiettivo di tradurre nell’insegnamento, attraverso i corsi, i risultati del proprio lavoro di studioso e formare giovani allievi attraverso l’esperienza della critica, in molti casi coinvolgendoli come collaboratori della «Rassegna», ma costituendone anche un riferimento etico-politico.

9. L’adesione al Psi e la battaglia per la democratizzazione dell’università

Nel febbraio 1959, come esito del movimento dei «socialisti senza tessera», ha aderito al Psi, portandovi le sue competenze di intellettuale e docente universitario dell’Associazione per la Difesa della Scuola Nazionale dalla quale nasce, nel marzo dello stesso anno, l’Associazione per la Difesa e lo Sviluppo della Scuola Pubblica; l’Adesspi, presieduta da Ragghianti, svolgerà un ruolo importante di progettazione della politica scolastica della sinistra e sui temi della laicità dello Stato, e della sua direzione nazionale faranno parte dal 1960 Binni, Lamberto Borghi, Adriano Buzzati Traverso, Guido Calogero, Aldo Capitini, Marcello Cini, Lucio Gambi, Eugenio Garin, Tullio Gregory, Raffaele Laporta, Lucio Lombardo Radice, Mario Alighiero Manacorda, Giuseppe Petronio, Leopoldo Piccardi, Stefano Rodotà, Antonio Santoni Rugiu, Salvatore Valitutti. Candidato per il Psi alle elezioni comunali dell’ottobre 1960, in lista per dovere, come intellettuale di prestigio, ma non per essere eletto, è sulla centralità della cultura che Binni insiste, scrivendo che una «democratizzazione socialista della società italiana» implica l’assunzione di una politica che affronti non solo i problemi di una necessaria «trasformazione economico-sociale» ma anche quelli «apparentemente secondari e subalterni, del rinnovamento della cultura, della difesa strenua delle minoranze, della libertà di pensiero, di informazione, di comunicazione, di ricerca e di lavoro culturale[82].

E i problemi della scuola pubblica e dell’università diventano terreno di scontro aperto tra la sinistra e il governo nel 1961, sull’onda lunga delle giornate drammatiche del luglio 1960 e alla vigilia del primo centrosinistra. Mentre si susseguono le iniziative nazionali di denuncia delle difficoltà crescenti in cui si trova la scuola pubblica per carenza di risorse mentre la Dc e le destre proseguono la lunga marcia a favore della scuola privata, e dell’arretratezza delle università di fronte a una domanda crescente di iscrizioni, è proprio all’Università di Firenze che esplode il primo conflitto significativo. L’astensione dagli esami dei professori incaricati, nel giugno 1961, per rivendicare condizioni economiche e giuridiche meno intollerabili, innesca un processo di rapido coinvolgimento degli assistenti, con motivazioni analoghe, e soprattutto degli studenti che attraverso le loro organizzazioni (Unione goliardica italiana, di sinistra, Intesa, cattolica, Libera goliardia, liberale) rivendicano una sostanziale democratizzazione dell’università e occupano alcune facoltà senza peraltro interrompere l’attività didattica. La risposta del Senato accademico è di totale chiusura soprattutto nei confronti degli studenti che a questo punto occupano il Rettorato; il Rettore, lo storico della filosofia Eustachio Paolo Lamanna, chiama la polizia e i duecento occupanti sono schedati e segnalati alla Procura. Il fronte dei docenti ordinari, sostanzialmente indifferente a quanto sta accadendo, e sostanzialmente solidale con l’atteggiamento del Senato accademico e la decisione del Rettore, viene rotto da una minoranza, di cui fanno parte Binni, Roberto Longhi, Eugenio Garin, Glauco Natoli, Giacomo Devoto, Cesare Luporini, Alessandro Perosa, Ernesto Sestan, Andrea Vasa e Giovanni Pugliese-Carratelli; è una minoranza molto piú attiva e autorevole della maggioranza silenziosa dei docenti che non intendono mettere in discussione consolidate posizioni di rendita, e l’esito di questo conflitto per la riforma della scuola sono le dimissioni del Rettore e di tre presidi di Facoltà, nonostante una campagna del quotidiano «La Nazione» contro gli «agitatori», docenti e studenti. Ma le implicazioni politiche sono piú profonde di quanto risulti dagli articoli della «Nazione», e Binni le evidenzia in un articolo per «Il Ponte», L’agitazione universitaria a Firenze[83]: l’agitazione ha messo a nudo

lo spirito non democratico, autoritario e erratamente legalistico di molti professori in cui la competenza scientifica e tecnica non è sostenuta e avvalorata da una adeguata consapevolezza dei propri doveri democraticamente educativi. Vecchio male italiano, come il conformismo e l’acquiescenza ai poteri ministeriali (tanto piú grave in persone che non hanno neppure il dovere del giuramento di fedeltà allo Stato, che sono inamovibili e non hanno alcuna ragione di timore): vecchio male che si associa in molti ad un singolare egoismo della cattedra e ad una posizione di vera e propria inimicizia verso gli studenti che ha avuto modo di manifestarsi di nuovo anche in questi ultimi giorni quando in una facoltà (nota del resto per le idee destrorse dei suoi professori di ruolo), alla ripresa degli esami, il preside ha sentito la necessità di inviare una lettera poliziesca ai professori invitandoli a vigilare sulla condotta degli studenti, a denunciare al preside ogni minima scorrettezza «anche di lieve natura» degli studenti, a isolare i pochi «mestatori» (che sarebbero i rappresentanti delle organizzazioni studentesche e i responsabili dell’agitazione recente). Professori con cui nessuna colleganza può indurci a superare il dissenso profondo, culturale ed umano, che da loro ci divide.

Ma ha anche fatto emergere un nuovo impegno degli studenti, rompendo una lunga tradizione di egemonia della destra sul corpo sociale studentesco:

Chi, come me, non ha disdegnato per un malinteso decoro accademico di assistere e partecipare alle assemblee tenute dagli studenti fiorentini in questi giorni, ha ben avvertito la maturità delle dichiarazioni fatte dai vari rappresentanti delle diverse organizzazioni studentesche e nelle diverse impostazioni ideologiche ha sentito quasi sempre un grado di serietà, di preparazione, e soprattutto di democraticità che avrebbero assai sorpreso i fautori dello studente che deve solo studiare e che deve esser trattato solo come un oggetto di cui, un po’ curiosamente e un po’ dispettosamente, verificare l’incasellamento nel punto di esame. […] Ancora un altro punto positivo: alle assemblee studentesche (cui parteciparono alcuni assistenti, incaricati e professori di ruolo) furono presenti anche alcuni giovani operai e la loro presenza fu intesa dagli studenti nel suo senso giusto: non quello di una piccola manovra politica, ma quello piú profondo (e che avrebbe superato comunque anche l’intenzione di una manovra politica) di una comunanza di interessi al rinnovamento della società italiana in ogni suo aspetto. […] Su questi risultati, e contro le speranze dei conservatori di ogni tipo e grado, si è venuta cosí formando una promettente intesa fra tutti i settori universitari nelle loro forze piú rappresentative e una piú larga intesa con altri settori attivi della vita italiana. E non sarà facile fermare l’azione di forze che nelle giornate scorse hanno compiuto un’essenziale prova di compattezza e di decisione ed hanno meglio chiarito gli obbiettivi da perseguire e la natura e la consistenza degli ostacoli interni ed esterni da superare.

In un successivo articolo per «Tribuna universitaria. Giornale dell’Unione Nazionale Assistenti Universitari», pubblicato a Genova e diretto da Giunio Luzzatto, L’agitazione universitaria e le vicende dell’Ateneo fiorentino[84], Binni rende conto della positiva esperienza di lotta nell’Università di Firenze e insiste sul suo carattere di possibile innesco di una nuova stagione di riformismo partecipato, da promuovere e sostenere senza riserve, perché ha parlato

un linguaggio insieme unitario e differenziato, molto interessante perché rivelava una forte maturità democratica e un fondo comune di persuasione su temi fondamentali: la necessità di un rinnovamento dell’Università, la relazione fra questo e il rinnovamento democratico e sociale del paese, la relazione fra il problema universitario e quello generale scolastico, l’interesse dell’Università al problema e alla difesa della scuola pubblica. Studenti come quelli che ho sentito parlare in quelle assemblee sono davvero meritevoli di una Università diversa da quella attuale e solo la comprensione delle loro esigenze può mettere in grado gli insegnanti di esercitare non inutilmente la loro attività didattica e scientifica e può mettere le autorità in grado di governare l’Università senza ricorrere alla polizia e senza doversi trovare in opposizione con i propri colleghi e con i propri studenti.

Nell’estate del 1961 Capitini è impegnato nell’organizzazione della marcia per la pace Perugia-Assisi e nelle lettere a Binni esprime tutta la sua insoddisfazione per lo scarso impegno dei partiti della sinistra; Binni scrive a Parri e, vincendo la sua esitazione per un’iniziativa che considera genericamente filantropica («Non ho temperamento gandhista, né messianico; non mi ci ritrovo in manifestazioni di sacrificio per il bene del prossimo, tanto piú ad Asssisi, ammorbata da mistici letterati democristiani e san Giovanni rossi. Mi piacerebbe, se mai, organizzare un grande coro di maledizioni apocalittiche»[85]), concorda il testo di un appello alla partecipazione che viene firmato ance da Enzo Enriques Agnoletti[86] e che procura numerose adesioni di intellettuali e artisti all’iniziativa di Capitini: Binni non è nonviolento ma, nel suo rispetto profondo per la persuasione di Capitini, condivide pienamente la natura di intervento politico dal basso che la marcia rappresenta, in alternativa a una politica internazionale dei governi che è prigioniera della logica dei blocchi e del terrorismo nucleare. Nonostante le giustificate preoccupazioni di Capitini, il 24 settembre la marcia, grazie alla sua tenacia e alle sue grandi doti di persuaso-persuasore e concreto organizzatore, è un grande successo. La mozione finale, approvata sulla Rocca di Assisi, definisce i principî generali di una concreta strategia di pace: il superamento dell’imperialismo, del razzismo, del colonialismo, dello sfruttamento; l’incontro culturale tra Occidente e Oriente; l’educazione alla pace «nei rapporti con tutti a tutti i livelli»; la nonviolenza come pratica attiva e rivoluzionaria[87].

La pace di cui parla Capitini non è l’assenza di guerra, è lotta per un mondo liberato da una Storia che gronda sangue e sopraffazione, in cui il libero sviluppo di ognuno sia garantito da assetti istituzionali veramente democratici, e il potere non sia di pochi ma di tutti. Nella mozione di Assisi l’omnicrazia che Capitini sta proponendo dagli anni del dopoguerra, e che ha sviluppato teoricamente nel volume Nuova socialità e riforma religiosa[88] sulla base dell’esperienza dei Cos, si confronta con l’assetto internazionale del mondo nel periodo di massimo sviluppo dell’imperialismo e dei movimenti di liberazione dal colonialismo; la sua prospettiva tenta di far incontrare, in una rivoluzione aperta e nonviolenta, le esperienze di democrazia diretta e le scelte strategiche dalle quali dipende il futuro dell’umanità. Naturalmente la sua è una voce nel deserto, tranne per pochi in grado di comprenderne la complessità e la radicalità rivoluzionaria. I piú, a cominciare dai dirigenti dei partiti di sinistra che comunque hanno partecipato alla marcia Perugia-Assisi, ne coglieranno un generico messaggio pacifista, senza vere implicazioni per la politica.

Profondamente diversa sarà la valutazione che di quell’esperienza collettiva farà Binni in una testimonianza per il libro che Capitini dedicherà alla marcia nel 1962:

So bene che la realtà politica, economica, sociale, è complessa e complicata e perciò sono e resto uomo di un preciso partito politico, e penso che l’azione politica non possa essere interamente sostituita solo da una posizione, per quanto attivissima, di tipo piú morale e religioso. Ma insieme penso che siano cattivi politici quelli che non comprendono e non valutano o credono di utilizzare fuori della sua vera direzione, un movimento proprio della coscienza e della volontà popolare come fu quello che indubbiamente viveva nella folla radunata alla Rocca di Assisi[89].

E l’anno successivo, il 18 marzo 1962, Binni parteciperà alla seconda marcia per la pace organizzata da Capitini, da Camucia a Cortona, e interverrà dal palco alla rocca di Cortona, subito dopo Capitini, con parole ispirate al messaggio leopardiano della Ginestra:

[…] Come piú di cento anni fa, il nostro maggiore poeta moderno, Giacomo Leopardi, al culmine della sua esperienza vitale, rivolgeva a tutti gli uomini un appello di solidarietà senza confini, di riconoscimento della loro comune situazione, considerandoli come tutti confederati fra loro, uniti da un vero amore in una lotta comune contro il male e l’avversità di una natura ostile […] e sconfessando come assurde e tragicamente sciocche le guerre fra di loro, cosí oggi dopo tante esperienze di dolore, di lutto, provocate dalle guerre imperialistiche, dalle tirannie fasciste, dalla sopraffazione colonialistica, tanto piú avvertiamo la verità di un simile invito alla solidarietà di tutti gli uomini di fronte ai pericoli tanto piú mostruosi della guerra atomica e della distruzione assoluta […][90]

E il mondo tremerà davvero pochi mesi dopo, in ottobre, durante il duro confronto tra Usa e Urss per i missili a Cuba.

Nell’estate del 1961, funestata dalla morte di Luigi Russo, maestro di storicismo dinamico e antiaccademico[91], Binni lavora contemporaneamente a tre volumi che usciranno nel 1963, Poetica, critica e storia letteraria[92], Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento[93], L’Arcadia e il Metastasio[94], e a un’innovativa Antologia della critica letteraria[95] con la collaborazione di Riccardo Scrivano. Ma è soprattutto l’ampliamento del saggio metodologico del 1960, Poetica, critica e storia letteraria, a impegnarlo, per tentare una sintesi della sua intensa esperienza di critico e proporre il suo metodo storico fondato sulla nozione di poetica: non una nuova estetica ma un nuovo modo di leggere i testi letterari. È dal 1936, dalla Poetica del decadentismo, che Binni sperimenta il suo metodo, scegliendosi gli autori su cui lavorare e all’interno dei singoli autori le zone di indagine: l’ultimo Leopardi, il preromanticismo settecentesco, la poesia arcadica, l’Ariosto delle opere minori, il Carducci di Nevicata (nel 1960 ha pubblicato Carducci e altri saggi[96]), per poi ricomporre profili monografici, quadri critici e periodizzazioni storico-letterarie. Lo studio delle poetiche, programmatiche e implicite, è sempre piú per Binni lo strumento operativo di cui si serve per attraversare la complessità di un autore e delle sue relazioni con le tendenze culturali e la Storia, coglierne le tensioni e restituirne il valore attraverso il giudizio critico. Poetica, critica e storia letteraria rappresenta, scriverà Binni nel 1993 nella premessa a una riedizione,

[…] un punto fermo per la mia consapevolezza metodologica del mio operare critico. In quel volume, infatti, formulavo in maniera piú precisa ed organica la mia tendenza all’interpretazione della poesia attraverso l’individuazione della poetica sia programmatica ed esplicita, sia interna ed implicita, che in seguito avrebbe trovato, nelle mie operazioni critiche, una forma sempre piú complessa di fusione fra le tensioni della poetica e le realizzazioni in atto[97].

La proposta metodologica di Binni (ma il volume non si rivolge soltanto agli specialisti) per una critica letteraria che, forte del suo rigore storicistico e filologico, permetta una dinamica comprensione dei fenomeni letterari e artistici in tutte le loro relazioni con la cultura e la Storia, si inserisce anche nel confronto critico, particolarmente acceso in questo momento, tra eredità del crocianesimo e sociologismo marxista, tra tecnicismo filologico e nuove tendenze strutturaliste provenienti dalla Francia. La proposta di Binni è aperta, è work in progress, da verificare e sviluppare nel concreto operare critico su autori e momenti del passato e del presente, sempre vissuti con senso di contemporaneità; la fondativa tradizione di De Sanctis, Croce e Gramsci, al cui interno ha operato lo stesso Russo, può trovare nuovi importanti sviluppi critici nella cultura italiana degli anni sessanta, nel necessario rinnovamento sociale e culturale dell’Italia del primo centrosinistra.

10. Costume e cultura: una polemica

Per tutte queste sue implicazioni Poetica, critica e storia letteraria è accolto con grande interesse sia dagli specialisti (Luigi Baldacci scrive in una recensione «È un libro che è venuto per non lasciare le cose come stanno»[98]) che dagli intellettuali impegnati a sinistra nella “battaglia della cultura”. Riceve invece un duro attacco denigratorio dalla rivista «Paragone-Letteratura» diretta da Anna Banti, moglie di Roberto Longhi, per ragioni che poco hanno a che fare con la critica letteraria e nascono, per interposta persona[99], da un conflitto accademico originato dall’assegnazione della cattedra di storia dell’arte alla Facoltà di Lettere e Filosofia, lasciata da Longhi per raggiunti limiti di età. Nel giugno il titolare uscente ha esposto le qualità dei due concorrenti, Roberto Salvini e Cesare Brandi, dichiarandosi a favore del secondo; a seguito di una relazione di Binni concordata con altri colleghi, il consiglio di Facoltà ha deciso a maggioranza a favore di Salvini. Per Longhi è un affronto, al quale reagisce invitando un assistente di Binni, Giuliano Innamorati, che fa parte del comitato di redazione di «Paragone-Letteratura», a interrompere ogni rapporto con Binni; Innamorati si dimette da «Paragone», seguíto da altri due componenti del comitato di redazione della rivista di Longhi, Giorgio Luti e Cesare Vasoli.

A ottobre, mentre nel comitato di redazione della rivista compaiono ancora arbitrariamente i nomi di Luti e Vasoli (che protesteranno pubblicamente), a Binni è dedicato un attacco che, contrapponendo al suo storicismo, ma alla sua intera attività di studioso e critico, la pretesa scientificità di una nuova critica strutturalista (ma dall’articolo non si capisce di che si tratti, se non per la rituale riproposta di formule pseudomatematiche sulla comunicazione letteraria: destinatore, destinatario, contesto, messaggio, codice, ecc.); ma soprattutto l’articolo dell’assistente di Longhi si caratterizza per una velenosa animosità denigratoria al limite dell’insulto: i suoi studi su Leopardi rivelano un’ossessiva «poetica del vecchietto che con gli anni migliora» e «inclinazioni gerontofile» da indagare psicanaliticamente; la sua metodologia proposta in Poetica, critica e storia letteraria è estranea a ogni «rigorosa critica letteraria». È strano che il recensore non aggredisca il vero nucleo della metodologia di Binni, la nozione di poetica, anche se in una nota finale avverte che svilupperà l’analisi «in un prossimo saggio» che mai scriverà.

L’attacco è chiaramente pretestuoso, è una piccola vendetta accademica del Longhi ferito, e infatti Binni è a lui che risponde direttamente. In una lettera al «Ponte», Costume e cultura[100], ricostruisce il contesto e il vero significato dell’attacco, «un episodio di quella forma di guerra accademica e letteraria che tanto nuoce alla serietà della nostra cultura universitaria e non universitaria». Il santuario longhiano risponde con rabbia spostando la polemica sul supplemento libri di «Paese Sera», che pochi mesi prima ha pubblicato un’ampia recensione positiva di Poetica, critica e storia letteraria, di Giuliano Manacorda; interviene di nuovo l’assistente di Longhi[101] (affiancato da una lettera di Anna Banti che si dice stupita per l’articolo di Binni sul «Ponte»), attaccando lo «schifoso moralismo» di Binni e sostenendo un’autodifesa delirante e isterica (non volevo dire che Binni è storicista, non è neppure quello, «quel bastardo di un pallone gonfiato») con uno stile, nota la redazione del «Ponte»[102], tipico «del “Borghese” e dello “Specchio”, trasferito paradossalmente in un giornale di sinistra». Dal rilievo, senza contraddittorio, dato alla violenta lettera di Rossi, sembra che il giornale la condivida.

È proprio questo a indignare Binni: il fatto che «Paese Sera», giornale di sinistra, si sia prestato a dare spazio a una sordida vendetta accademica. Ancora una volta, in una lettera aperta al direttore del supplemento letterario di «Paese Sera»[103], Piero Dallamano, non sbaglia mira: alle volgarità di chi lo ha attaccato non risponde neppure, gli fa pena «per la parte umiliante che ha accettato, sin dal suo primo scritto su “Paragone”, e non certo in rapporto alle buone fortune che non potranno mancargli nel mondo che egli frequenta e da cui è stato promosso l’attacco nei miei confronti. In quell’ambiente c’è bisogno di gente come lui».

Non fanno invece pena in alcun modo coloro che, tanto piú maturi di lui, di lui si sono serviti e si servono, pronti poi a rifugiarsi nel silenzio dignitoso o in una stupita indignazione per trovarsi coinvolti in una serie di fatti di cui si dichiarano non responsabili: mentre tali li dichiarano persino i camerieri dei caffè letterari fiorentini e, fuori dei pettegolezzi cenacolari, tutti quegli uomini onesti e di cultura che hanno voluto esprimermi a voce e per lettera il loro disgusto per questo episodio nelle sue varie fasi. Uomini di cultura di vario indirizzo ideologico, ma molti ben appartenenti a quei settori culturali ed etico-politici di cui il Suo giornale vorrebbe essere espressione.

Ma è con «Paese Sera» che Binni polemizza indignato, per aver «dato valida mano ad una […] spregevole iniziativa e vendetta», per

crearsi meriti […] presso uno di quegli ambienti snobistici e qualunquistici (prima vengo attaccato come storicista e poi come non-storicista!) che, sol per ragioni di una sbagliata politica culturale, possono essere ritenuti validi alleati della cultura di sinistra. […] Questa politica, non nuova del resto in certi momenti e settori della cultura di sinistra, è una politica profondamente sbagliata, che serve, alla fine, solo a uomini e ambienti che pensano solo a mantenere e rafforzare il proprio prestigio e le proprie fortune mondane, e che non hanno nulla a che fare con gli interessi culturali e politici del Suo giornale.

Nello stesso numero di «Paese Sera» sono pubblicate due lettere; una di Ragghianti[104], polemica con il giornale per aver pubblicato l’attacco di Rossi, ma anche con la lettera di Anna Banti che ha attribuito a Binni «un costume cosí tortuoso e provinciale»:

Ma le lettere si permettono di parlare di costume nei riguardi di Walter Binni. Se venendo da tali teste il giudizio ispira benevolo compatimento, sul piano del costume la cosa cambia. Non è certo da salotti antiquario-letterari né da ambienti di demi-monde intellettuale decadente, che per snobismo si dà arie di “sinistra”, che possono provenire pretese di giudizio in questa materia. Mancano i titoli. Lasciando da parte il critico e l’uomo di cultura, Walter Binni fin dalla sua giovinezza si è posto su un piano etico, d’impegno umano e di pensiero, che può essere soltanto preso ad esempio, ed augurabilmente seguíto, dai suoi detrattori. Ognuno è figlio delle proprie azioni, e vale per quel che fa. Resti perciò nei propri limiti, guardandosi dall’esercizio di capacità che non possiede. Diversamente, non conti che si consenta ad equivoci e mescolamenti di carte.

L’altra lettera è di Luigi Baldacci[105], attaccato inequivocabilmente da Rossi ma senza essere nominato: non gli risponde neppure,

ma nella mia qualità di studioso e di critico militante, indipendentemente da ogni considerazione teorica, non posso fare a meno di deplorare che «Paese Sera», senza preoccuparsi di vagliare i fatti e le situazioni, si sia prestato ad essere veicolo d’insulti che degradano in modo preoccupante il costume giornalistico: e questo anche a prescindere dall’ovvio rilievo che essi sono indirizzati a persona degna della massima stima.

Nello stesso numero del giornale si annunciano altre lettere pervenute alla redazione (Riccardo Scrivano, Giuliano Innamorati, Giorgio Luti, Silvio Ramat, Cesare Luporini, una lettera firmata da 23 studenti, tra cui Roberto Cardini, Anna Belgrado, Roberto Bigazzi, Nicoletta Codignola, Vanni Bramanti, Enrico Ghidetti, Brunella Eruli, Piero Gelli, Enrico Guaita, Mila Mazzetti, Maurizio Del Ministro, Francesco Ragghianti, Massimo Stefano Zanoccoli in cui si chiede il licenziamento di Dallamano da «Paese Sera») che il giornale si impegna a pubblicare nei numeri successivi. Scrive anche Longhi[106], in difesa dell’«acuta recensione» del suo assistente e per respingere «le gratuite asserzioni del professor Binni». Ma tutte le altre lettere che si susseguono nei numeri del 27 dicembre, del 3 gennaio 1964 e del 10 gennaio parlano un linguaggio diverso. Scrive Cesare Luporini[107], deplorando il comportamento di «Paese Sera», scrive Giuliano Manacorda[108] con analoghe considerazioni, scrive Silvio Guarnieri[109] chiedendo a Dallamano di prendere posizione, visto che è responsabile del pasticcio, scrive Gianfranco Corsini[110]:

I presupposti tutt’altro che “scientifici” di tale polemica sono noti al mondo culturale italiano da tempo, e potrebbero essere relegati nel limbo delle “querelles” accademiche se non costituissero un grave precedente nel costume letterario del nostro paese dove la esigenza di un onesto confronto delle idee mi sembra particolarmente sentita nel campo della critica. Il volume di Binni, che ha offerto il pretesto all’inconsueto attacco di Rossi, rispondeva proprio a tale esigenza e costituiva, proprio per la sua problematicità e per la chiarezza dei suoi intenti, una ottima occasione per chiunque fosse sinceramente interessato a problemi di metodo critico. Il fatto che Rossi abbia preferito scegliere (su «Paragone» prima e poi su «Libri-Paese Sera») l’arma dell’offesa e del turpiloquio culturale squalifica qualunque sua pretesa di rigore scientifico.

Alla redazione continuano ad arrivare lettere di protesta e di solidarietà con Binni, che tendono a entrare nel merito dei problemi critici proposti da Poetica, critica e storia letteraria. Il 10 gennaio, con un testo non firmato di Dallamano, il supplemento libri di «Paese Sera» annuncia la Chiusura di una polemica «per evidenti esigenze giornalistiche di distribuzione dello spazio fra i diversi temi da trattare». Il tono è imbarazzato: la polemica «ha investito, e con un’asprezza di toni sovente spiacevole, un campo di contrasti e di problemi che escono dalla nostra competenza e sui quali non intendiamo in alcun modo intervenire»; del resto il libro di Binni era già stato recensito sul giornale da Giuliano Manacorda, e comunque «non era certo nostra intenzione dare luogo a una polemica che investisse l’opera e la figura del prof. Longhi, i cui meriti di studioso e di uomo di cultura, a tutti noti, non hanno certo bisogno di essere qui ricordati».

Queste ultime parole sono rivelatrici del coinvolgimento del direttore di «Paese Sera-Libri» nella piccola vendetta longhiana; Binni l’aveva capito perfettamente, e la dichiarata solidarietà con l’aggressore è la logica conseguenza di quella «malintesa politica della cultura» che porta a stringere «alleanze di comodo con ambienti e settori di tipo chiaramente snobistico, da cui non ci si possono attendere discussioni serie e costruttive», come aveva scritto sul «Ponte» in Costume e cultura, rivolgendosi proprio alla sinistra di cui fa parte, e di cui «Paese Sera» è strumento.

11. A Roma

Nel gennaio 1964, negli stessi giorni in cui si va concludendo la polemica di cui è stato protagonista, Binni è chiamato alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma; la proposta gli era stata avanzata nel corso dell’anno precedente da Natalino Sapegno. Roma è per Binni un luogo di memorie familiari (gli Agabiti vi avevano soggiornato a lungo) e personali: è la città del periodo appassionato della Costituente, dell’intenso lavoro politico e culturale, e anche critico, del 1946-47. Gli amici romani dell’Adesspi e del Psi lo convincono dell’utilità politico-culturale di una sua presenza a Roma, per rafforzare le posizioni della sinistra in una grande Università gestita dalla destra, e dare il suo contributo di intellettuale nella fase delicatissima del primo governo di centrosinistra. Dal 1963 è inoltre socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei, dove ha ritrovato tanti amici del periodo dell’antifascismo e dell’ambiente universitario pisano, genovese e fiorentino. A Roma inoltre vivono Dessí, Bassani, Pratolini, Silone e tanti altri amici di passioni letterarie e politiche. Lascia Firenze nell’autunno del 1964 (a giugno ha partecipato a un convegno di studi michelangioleschi con una relazione su Michelangelo scrittore[111] che diventerà un volume nel 1965) e si trasferisce a Roma; le finestre del suo nuovo studio danno sul parco di Villa Torlonia, dove Mussolini andava a cavallo e la moglie allevava galline. Lascia a Firenze, presso Sansoni, la stampa della «Rassegna», mantenendo solidi legami con l’ambiente fiorentino del «Ponte», della Nuova Italia e dell’Università. Con lui si trasferiscono a Roma il suo assistente e stretto collaboratore Riccardo Scrivano (con cui sta preparando anche libri di testo per la scuola e strumenti per l’Università[112]), e numerosi studenti tra cui Enrico Ghidetti, Roberto Cardini e Roberto Bigazzi.

Il corso dell’anno accademico 1964-65 è su Leopardi, e proseguirà nei due anni accademici successivi.

L’arrivo a Roma di Walter Binni – ricorderà Amedeo Quondam[113] – fu subito un evento: irrompeva nel regolato scorrere delle ore di studio per tanti giovani che nei primi anni sessanta si ritrovavano ad annodare, nei corridoi e nelle aule della Sapienza, le loro acerbe passioni letterarie. Alcuni di noi si erano già formati con Natalino Sapegno, ma in tanti subimmo il fascino del nuovo professore, del suo stile, soprattutto. Sollecitava impegno e coinvolgimento, dava responsabilità e autonomia. Sbalorditi dalla forza di questo ciclone fummo chiamati a diventare relatori principali di seminari sulla critica del Novecento, sui commenti danteschi, e sempre spronati a seguire la letteratura di quegli anni, il dibattito teorico e critico. Emozionati, seduti in cattedra accanto a lui, leggevamo ai compagni di corso le nostre pagine: Binni prendeva appunti, e poi giudicava, sollecitava la discussione […].

Anche a Roma, come a Genova e a Firenze, l’impegno didattico di Binni è totale, nelle lezioni, nei seminari, negli esami, e nel lavoro universitario confluiscono immediatamente i risultati del suo lavoro di studioso e critico; mentre tiene i corsi leopardiani del triennio 1964-67, con uno dei suoi studenti fiorentini che lo ha seguíto a Roma e che diventerà suo assistente, Enrico Ghidetti, prepara una nuova edizione delle opere di Leopardi, sulla linea di sviluppo della Nuova poetica leopardiana del 1947. A fianco dei corsi universitari, prosegue il suo impegno di settecentista in un’opera di sistemazione organica del Settecento letterario che produrrà nel 1968 un importante volume della Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno[114]. In questo stesso periodo tiene alla Rai una serie di lezioni su Ariosto[115] e con Sapegno inoltre prepara una Storia letteraria delle regioni d’Italia[116], in un momento in cui l’istituzione delle Regioni, prevista dalla Costituzione, è finalmente in fase di attuazione.

Ma l’Università di Roma, – scriverà Binni nel maggio 1966[117] – per le sue stesse proporzioni numeriche (raccoglie un quarto della popolazione universitaria italiana), per la sua collocazione in Roma, per la paurosa rete di interessi che tutta la avvolge, per la colpevole direzione rettoriale e amministrativa che l’ha governata in questi ultimi anni, per la presenza attiva delle squadre teppistiche nazifasciste che ne turbano profondamente la vita, è certo come la proiezione ingigantita dei difetti di fondo dell’Università italiana. Io, che come deputato all’Assemblea Costituente e poi, dal 1948 al 1964 come professore di ruolo a Genova e a Firenze, ho fatto una lunga esperienza dei problemi universitari e della vita e lotta universitaria, quando sono passato all’Università di Roma ho trovato una situazione di gran lunga peggiore di quella di ogni altra Università. Sapevo naturalmente della situazione universitaria romana, ma la realtà superava purtroppo ogni aspettativa: disordine e disinteresse per i problemi degli studenti e per l’efficienza degli strumenti di ricerca e di studio, stato di vero terrore a causa dell’attività dei giovani nazifascisti, tolleranza e, di fatto, difesa di questa da parte del rettore, del direttore amministrativo, degli organi di polizia preposti al mantenimento dell’ordine e al rispetto della legge costituzionale nella città universitaria.

Nel corso del 1964 e del 1965 nella città universitaria agiscono indisturbate le squadracce di Avanguardia nazionale, del gruppo universitario Caravella, del Fuan, del Msi, guidate da futuri esponenti della “strategia della tensione” e del terrorismo nero come Stefano Delle Chiaie, Serafino Di Luia, Flavio Campo; forti di una lunga tradizione di schieramento a destra del corpo studentesco, i gruppi nazifascisti scorrazzano per la città universitaria aggredendo studenti e docenti, dando la caccia ai “comunisti”, nell’indifferenza e talvolta con la visibile compiacenza della polizia. Il 12 aprile 1965 un gruppo di fascisti di Avanguardia nazionale e della Caravella tenta di aggredire Ferruccio Parri, capo militare della Resistenza e senatore della Repubblica, che tiene una lezione alla Facoltà di Lettere e Filosofia; l’aggressione viene evitata con difficoltà grazie all’intervento di un piccolo gruppo spontaneo di studenti democratici, e i carabinieri sono costretti a intervenire contro i teppisti che, armati di bastoni e di catene di ferro, gridano «All’armi siam fascisti» e insultano la Resistenza. Nell’occasione riescono comunque a mandare all’ospedale due studenti liceali e il figlio del docente Aurelio Roncaglia.

L’episodio clamoroso della tentata aggressione a Parri innesca una prima reazione significativa di un gruppo di docenti, che in una lettera al rettore Ugo Papi, il 16 aprile, scrivono:

Davanti a questi fatti, che rinnovano gravi episodi del passato e che indicano il persistente tentativo di introdurre nella vita dell’Università una psicosi di intimidazione assolutamente intollerabile, nei confronti non solo degli studenti ma degli stessi docenti, i sottoscritti, mentre esprimono la propria indignazione, ritengono necessario che, in attesa dei provvedimenti che la Magistratura riterrà di adottare nei confronti dei responsabili, le autorità accademiche sottopongano a provvedimento disciplinare gli studenti iscritti all’Università che figurano tra i “fermati” dalla polizia in occasione degli episodi predetti, per le gravissime infrazioni disciplinari di cui essi si sono resi responsabili. E ciò allo scopo di tutelare, accanto alla sicurezza personale degli studenti, la dignità stessa dell’Università e della sua sede, che non può essere abbassata a teatro delle gesta di elementi indegni di frequentarla e che, sotto colore politico, danno vita a manifestazioni di autentico teppismo. Con ossequio, Argan, Binni, Roncaglia, Mariotti, Gregory, Brelich, Donadoni, Mazzarino, Frugoni, Romeo, Sapegno, Visalberghi, De Francovich, Gabrieli, Macchia, Morghen, Moscati S., Pincherle, Praz, Pugliese-Carratelli, Puglisi, Ronga, Scudieri Ruggieri, Calogero[118].

Pochi giorni dopo, un nuovo episodio di aggressione nei confronti di tre studenti che rifiutano i volantini di Avanguardia nazionale; mentre i tre vengono pestati intervengono alcuni poliziotti che fermano i tre aggrediti per accertare le loro generalità, e intanto gli aggressori si allontanano indisturbati. A intensificare l’attività squadristica dei fascisti si è aggiunto un nuovo gruppo studentesco, Primula Goliardica, che si caratterizza per un attacco sistematico ai partiti dell’arco costituzionale; è un gruppo costituito come strumento della “strategia della tensione”, a seguito del patto golpista che dal 1965[119] unisce settori dell’esercito, delle forze dell’ordine, della magistratura, dei ministeri, la destra democristiana e il Msi, le varie organizzazioni dell’estrema destra (da Nuova Repubblica di Pacciardi ad Avanguardia nazionale), quotidiani e periodici di destra (dal «Tempo» di Roma al «Borghese», allo «Specchio»), contro il governo di centrosinistra e le “mani rosse” sulla società italiana. La strategia della tensione è “atlantica”; dal 1964 è iniziata la guerra americana in Vietnam e, in Europa, nel 1967 il colpo di Stato dei colonnelli instaurerà la dittatura militare in Grecia.

Nel marzo-aprile del 1966 è un susseguirsi ininterrotto di aggressioni e minacce, in coincidenza con le elezioni studentesche per il rinnovo degli organi rappresentativi; come al solito la polizia, di cui è responsabile operativo il commissario D’Alessandro, lascia fare. Tra i picchiatori fascisti sono sempre piú numerosi gli elementi estranei all’Università, e anche per questa ragione il rettore, ripetutamente sollecitato da gruppi di docenti a intervenire, evita di farlo. In realtà anche il rettore Papi, come i fascisti delle squadracce, si sente investito del ruolo storico di salvare l’Università dai “comunisti”, come in seguito dichiarerà.

12. L’assassinio di Paolo Rossi

La mattina del 27 aprile, sulla scalinata della Facoltà di Lettere, i fascisti aggrediscono un gruppo di studenti; nel tafferuglio che ne segue, mentre la polizia di D’Alessandro come al solito sta a guardare, uno studente viene percosso duramente e per un malore precipita dalla spalletta della piattaforma adiacente all’ingresso della Facoltà, da un’altezza di cinque metri: morirà nella notte. È lo studente socialista Paolo Rossi, perugino, figlio di Enzo e Tina Rossi, partigiani cattolici e amici di Binni dagli anni dell’antifascismo. La mattina del 28 aprile i fascisti sono di nuovo davanti alla Facoltà di Lettere, a insultare e provocare studenti e docenti; testimonierà Tullio De Mauro[120]: «[…] da un gruppo di scalmanati […] presenti carabinieri e agenti in borghese, si sono ripetutamente levate grida di insulti all’indirizzo degli studenti e dei professori di lettere. Gli insulti piú ripetuti erano “sciacallo” e “Papi sí, Rossi no” (Paolo Rossi era morto da poche ore), in particolare contro i professori Gregory e Binni. Binni era il piú vicino al gruppo. Mentre carabinieri e agenti assistevano senza intervenire, dal gruppo sono partiti degli sputi; in particolare Serafino Di Luia colpisce con i suoi sputi il Prof. Binni». La tensione cresce di ora in ora; la Facoltà di Lettere viene occupata dagli studenti e dai pochi docenti presenti, e subito sgomberata dalla polizia chiamata dal rettore Papi; per lui la morte di Paolo Rossi è dovuta a «mera disgrazia», non è la conseguenza di un clima e di precise responsabilità. È la stessa tesi su cui la stampa di destra sviluppa immediatamente una campagna, accusando di sciacallaggio la sinistra che si mobilita contro un delitto politico e in particolare i docenti che denunciano la corresponsabilità del rettore Papi e delle forze dell’ordine. Allo sgombero di Lettere il movimento degli studenti, rompendo con una lunga fase di paura e subalternità alle intimidazioni e alle aggressioni dei fascisti, risponde, il 30 aprile, con l’occupazione di altre Facoltà, mentre il movimento di protesta antifascista si sviluppa rapidamente in altre università italiane, da Firenze a Perugia, da Milano a Torino; in questo stesso giorno una folla immensa di studenti e lavoratori partecipa a Roma, all’Università, ai funerali di Paolo Rossi. Sono presenti tutti i leader dei partiti dell’“arco costituzionale”, dal Pci al Pli (Nenni, De Martino, Pertini, Longo, Ingrao, Lombardi, Vecchietti, Parri, La Malfa, Forlani), i partigiani dell’Anpi, i lavoratori della Cgil, cittadini comuni. Sulla scalinata del rettorato, nel piazzale della Minerva, è Binni a tenere l’orazione funebre, a nome di tutti i partiti antifascisti, dei docenti e degli studenti romani. È un discorso duro e intransigente[121], innanzitutto un atto di accusa contro i vari responsabili della morte del giovanissimo Paolo Rossi:

[…] Perché, perché è morto Paolo Rossi? Anzitutto perché egli era un giovane democratico e antifascista e, in Italia, dopo la Liberazione, da tempo muoiono violentemente solo i democratici e gli antifascisti! Tale sua qualità lo designava insieme ad altri giovani democratici antifascisti alle aggressioni brutali, alla abbietta volontà distruttiva di quei gruppi di azione squadrista che da tempo agiscono indisturbati e incoraggiati nell’Università di Roma esercitando, con pertinace bestialità, quel costume di violenza, ancora pubblicamente difeso e propagandato fino in Parlamento da quei tetri straccioni intellettuali e morali che danno l’avvio ai giovani teppisti studenti e non studenti. Straccioni teppisti e, a livello piú profondo, sventurati che cercano con l’attivismo squadrista e la violenza di compensare la loro nullità mentale e morale, la loro incapacità a vivere nella dimensione e nella misura degli uomini veri, essi che non hanno nulla capito della vita e della storia, nulla della civiltà, nulla dell’umanità, di cui essi rifiutano e spezzano i vincoli profondi, nulla delle parole inutilmente rivolte loro da chi si sforza (e con quanta fatica e ripugnanza!) a volerli considerare pur uomini, a proporre loro una superiore legge di discussione, di rispetto dell’avversario, invece della sua distruzione fisica. Ma Paolo è morto anche perché troppo grande è la sproporzione, la tragica sproporzione nel nostro paese tra una maturazione vasta di ideali democratici e una prassi di avversione, o quanto meno di diffidenza a questa, là dove essi dovrebbero essere tutelati e difesi contro i velenosi frutti della educazione alla violenza. Perché troppa è la distanza tra la Costituzione nata dalla Resistenza e la mentalità e la pratica dei detentori di strumenti repressivi spesso inadeguati o spesso addirittura contrari al loro scopo istituzionale.[…] In questo contesto piú generale la morte tragica di Paolo Rossi deriva da una causa piú vicina e legata all’Università di Roma. So di pronunciare un giudizio gravissimo e serissimo […]

e Binni denuncia le precise responsabilità del rettore Papi:

Egli ne ha preparato la morte con infiniti atti di assenza e di presenza negativa, con l’incoraggiamento dato ai gruppi violenti e anticostituzionali lasciandoli liberi di provocare e aggredire gli studenti democratici e inermi, di insultare docenti e uomini del piú alto valore morale e intellettuale, tollerando e difendendo la presenza di scritte anticostituzionali in locali da lui controllati, rifiutando di prendere nella dovuta considerazione denunce precise degli organismi studenteschi democratici, proteste di illustri docenti, lasciate spesso villanamente senza risposta. Quale meraviglia allora se in questo clima da lui creato si poteva giungere alla tragica morte di uno studente democratico? D’altra parte, quale meraviglia, se neppure una tragedia simile è bastata a far comprendere a quell’uomo i suoi doveri e – una volta che questi venivano ancora da lui ignorati – a fargli comprendere l’elementare necessità di abbandonare un posto cosí indegnamente occupato.

L’ultima parte dell’orazione funebre Binni la dedica ai compiti della politica, al dovere di «una lotta democratica, coerente ai metodi e ai fini della democrazia, decisissima nella scelta di ciò che rende degna la vita degli uomini e nel rifiuto di tutto ciò che la deturpa, la contamina e la rende peggiore della morte».

Al termine del funerale di Paolo Rossi, nell’aula I di Lettere occupata si svolge un’affollatissima assemblea alla presenza di Parri, Nenni, Longo, Ingrao, La Malfa e altri rappresentanti dei partiti democratici, che si conclude con l’impegno collettivo a liberare l’Università di Roma dalla presenza delle bande fasciste e a promuovere per il 2 maggio uno sciopero nazionale degli studenti universitari. Il giorno dopo, il 1° maggio, 50 docenti dell’Ateneo romano (il gruppo dei docenti si è rapidamente ampliato in pochi giorni) scrivono una lettera aperta al Presidente della Repubblica, Saragat, chiedendo l’«effettiva applicazione delle leggi dello Stato che qualificano come reato la ricostituzione di organizzazioni esaltanti il fascismo, il nazismo o la violenza come mezzo di lotta politica», come risulterà da un “libro bianco” che alcuni docenti e gli organismi studenteschi si impegnano da subito a preparare. Il 2 maggio una delegazione di docenti e studenti guidata da Binni si incontra con il capo della polizia Vicari, che assicura un nuovo impegno delle forze dell’ordine in difesa della legalità democratica. Lo stesso giorno, a conclusione di una tempestosa seduta del Senato accademico e dietro precise richieste dei presidi delle Facoltà di Architettura, Lettere e Scienze statistiche, il rettore Papi è costretto a rassegnare le dimissioni. È una vittoria del movimento di protesta, impensabile solo pochi giorni prima.

In realtà la reazione all’assassinio di Paolo Rossi, a Roma ma anche a livello nazionale, ha segnato un vero passaggio di fase politica: la nascita di un movimento di massa degli studenti, contro i fascisti ma anche per una autentica democratizzazione dell’università, e rapporti di tipo nuovo tra studenti e docenti, tra studenti e lavoratori, tra studenti e partiti della sinistra. È in questi giorni di nuova passione politica e di entusiasmo che un giovane studente di architettura, Paolo Pietrangeli, compone Contessa, la canzone che diventerà una bandiera del Sessantotto. Il 3 maggio, in un’assemblea interfacoltà a Lettere, il movimento degli studenti decide di sospendere le occupazioni. Un comitato tra docenti e studenti preparerà il Libro bianco sulle violenze fasciste, come strumento di informazione e di lotta per i mesi a venire.

La reazione della destra fascista e “moderata” alle dimissioni imposte al rettore Papi è furiosa. La campagna di stampa sulla “morte accidentale” di Paolo Rossi e sullo “sciacallaggio” della sinistra assume toni di violenza estrema. A Binni viene riservato un trattamento particolare: mentre si susseguono le telefonate minatorie, tanto che la sua abitazione di Via Torlonia viene presidiata dalla polizia, il 10 maggio un deputato missino umbro[122] coinvolto nella nascita e nelle scorribande teppistiche di Primula Goliardica presenta un’interrogazione parlamentare «per sapere se il prof. Walter Binni nato a Perugia nel 1913 […] è lo stesso […] che fu collaboratore nel 1940 della rivista “Primato” diretta da G. Bottai e partecipò ai littoriali del 1934 classificandosi al 9° posto […]» ed è stato figlio di un «noto gerarca fascista». Le variazioni sul tema del solito antifascista voltagabbana che dà lezioni di morale non avendone i titoli si moltiplicano su «Lo Specchio», «Il Borghese», «La Nazione» di Firenze, «Il Tempo» e «Momento Sera» di Roma, e numerosi altri quotidiani e periodici a livello nazionale; è una campagna che segue i consueti rituali di denigrazione degli antifascisti e della Resistenza, tanto piú rabbiosa in un momento di reale conflitto tra le destre e il pericolo di un riformismo socialista che persegue gli obiettivi di riforma della scuola dell’obbligo, di nazionalizzazione di settori strategici dell’economia, di istituzione delle Regioni. La stessa campagna coinvolge la morte di Paolo Rossi, insistendo sulle sue cause accidentali ed estranee a responsabilità fasciste.

La risposta del movimento degli studenti e dei docenti democratici è, il 15 maggio, la presentazione del Libro bianco sulle violenze delle squadracce all’Università (viene presentato in una conferenza stampa da Binni, Calogero, Roncaglia, De Mauro, Ettore Biocca e altri docenti, e pubblicato integralmente da «Paese Sera»[123]) firmato da una «commissione di professori» (Binni, Biocca, Calogero, Careri, Coversi, Federici, Gregory, Mariotti, Quaroni, Sylos Labini, Salvini) e dal «comitato interfacoltà (Movimento per la riforma e democratizzazione dell’Università)», e corredato da fotografie di Adriano Mordenti. È un primo esempio concreto di quell’attività di controinformazione che si svilupperà tra pochi anni a Roma con La strage di Stato, controinchiesta sulle bombe di Milano e Roma nel dicembre 1969 e sulla strategia della tensione avviata nel 1965.

L’indagine della magistratura si conclude alla fine del 1966: «omicidio preterintenzionale ad opera di ignoti», anche se numerose fotografie permetterebbero di individuare i responsabili dell’accaduto[124]. E l’attività del comitato studenti-docenti proseguirà con gli obiettivi della democratizzazione e della riforma dell’Università. Nel dicembre 1966 Binni interviene di nuovo a proposito dell’assassinio di Paolo Rossi, con un articolo[125] su «La Conquista», mensile dei giovani socialisti romani, e fa un bilancio dei sette mesi seguiti alla morte di Paolo:

[…] il discorso dovrebbe ampliarsi a dismisura sui metodi e le ragioni di quella campagna che, inizialmente promossa dai piú direttamente interessati, è stata poi raccolta e rilanciata da tutti gli organi e settimanali, centrali periferici, del qualunquismo e del “benpensantismo” italiano. Lo spazio non mi permette di svolgere qui tale discorso amarissimo ed estremamente significativo per la bassezza, la spregiudicatezza faziosa di tanta stampa italiana e per i suoi rapporti con forze precise e con un settore dell’opinione pubblica piú proclive a gustare notizie scandalistiche sui partiti e sugli uomini democratici che a cercar di capire la verità dei fatti e il loro significato. A noi, per amore della verità, per il dovere contratto con il giovane compagno morto, per il dovere perenne di una lotta democratica mai esauribile, spetta di non cedere all’amarezza degli oltraggi, al senso di disgusto che si prova di fronte ad una campagna di stampa cosí chiaramente falsa, deformatrice, profondamente antidemocratica per contenuti e metodi. Spetta a noi di condurre avanti, senza opportunismi e remore falsamente prudenziali una battaglia democratica e civile che, mentre mira a stabilire la verità di fatto sulla morte di Paolo Rossi, non può insieme non mirare a chiarirne i nessi sociali e politici con una situazione piú vasta e pericolosa, a colpire i settori che di quella situazione e della stessa campagna di stampa sono stati e sono interessati sostenitori, a sollecitare le forze democratiche ad una assidua vigilanza, ad una estrema chiarezza di intenti, ad una azione energica di fronte al complesso panorama di interessi, di connivenze, di antidemocratica volontà che la morte di Paolo Rossi e la lunga polemica che ne è seguíta, ci hanno ancora meglio rivelato […].

Il bilancio di Binni chiama in causa anche certe riserve, in area democratico-moderata e socialista, con cui è stata accolta la sua orazione funebre per Paolo Rossi, giudicata eccessivamente dura e violenta, e a Pertini, presidente della Camera, non è piaciuto affatto che dei parlamentari della Repubblica, sia pure fascisti, ma pur sempre parlamentari, siano stati definiti «straccioni intellettuali e morali». Non ha avuto invece alcuna riserva Capitini che il 2 maggio ha scritto a Binni: «Caro Walter, sono riuscito a leggere il tuo discorso intero! […] Ho visto poco fa il Paese Sera: il tuo discorso è molto bello. Il Partito socialista dovrebbe farne un opuscolo»[126]. E Parri, di fronte al linciaggio di Binni su giornali e riviste della destra fascista e “moderata”, il 13 maggio gli ha inviato un telegramma altrettanto chiaro: «Federazione Italiana Associazioni Partigiane sente dovere testimoniare amico Binni inalterata affettuosa stima che Resistenza habet per valoroso compagno lotta liberazione e testimonianza ammirazione per discorso recente Università di Roma»[127]. Cosí come numerose sono state le prese di posizione, a Roma e in varie città italiane, contro il fango sparso sulla figura e l’opera di Binni, tra cui una dichiarazione del Consiglio regionale toscano della Resistenza presieduto da Enzo Enriques Agnoletti, in cui sono state pronunciate parole definitive sul ruolo di Binni nel «lungo viaggio attraverso il fascismo» (il libro di Ruggero Zangrandi è uscito nel 1962) e contro la campagna diffamatoria in cui si è distinta «La Nazione» dopo la partecipazione di Binni a una manifestazione, a Firenze il 7 maggio, contro l’assassinio di Paolo Rossi:

Il Consiglio Regionale Toscano della Resistenza, presa visione delle pseudo-accuse rivolte dal deputato missino Cruciani al prof. Walter Binni, pubblicate su «La Nazione» dell’11 corrente, afferma che pochi giovani e studiosi hanno dato testimonianza di coerenza morale, intellettuale e politica come il prof. Walter Binni. L’aver partecipato a 21 anni ai littoriali della cultura discutendo problemi di cultura con altri giovani, moltissimi dei quali erano già, o sono diventati dopo, antifascisti convinti ed attivi, dipende soltanto dalle condizioni di vita dei giovani in un regime totalitario; quanto alla collaborazione alla rivista «Primato», diretta da Bottai, a cui collaborarono maestri del professor Binni, come Luigi Russo, tale collaborazione ha avuto carattere esclusivamente letterario e «Primato» ospitò ad un certo momento e proprio per la penna di Luigi Russo, articoli non conformisti. Il prof. Walter Binni sin dal 1936 (all’età di 23 anni) faceva parte a Perugia di un comitato clandestino antifascista ed ha sempre collaborato all’opposizione antifascista sia prima che durante la Resistenza. Semplicemente falsa è l’affermazione che il prof. Walter Binni si sia dimesso dalla Consulta Nazionale a cui non ha mai appartenuto, mentre fu eletto all’Assemblea Costituente nella lista socialista. Quanto alle calunniose affermazioni secondo cui il padre del prof. Binni sarebbe stato un gerarca fascista (mentre fu semplicemente vice-preside della provincia) anche se fossero state vere esse non avrebbero che reso piú meritoria la via che il prof. Binni ha saputo trovare, portare avanti, tenere sempre viva con rigore e moralità intransigente, unendo la fede democratica e politica ai piú alti valori della cultura. Il Consiglio Regionale toscano della Resistenza lo ringrazia per aver degnamente espresso a Firenze i sentimenti della stragrande maggioranza dei cittadini[128].

Mentre dalla sua città, Perugia, sono intervenuti gli amici della cospirazione antifascista, Capitini, Montesperelli, Apponi e Catanelli, con un’indignata dichiarazione pubblica[129]:

In rapporto alle accuse che in sede parlamentare sono state di recente mosse a Walter Binni da un nostalgico di quello sciagurato dispotismo che conculcò ai cittadini tutti i diritti naturali e tutte le libertà civili, e tolse ai giovani ogni possibilità d’informazione e di formazione ideologica, noi sottoscritti, che della giovinezza di Binni fummo gli amici piú prossimi, teniamo a smascherare lo scopo diffamatorio e calunnioso delle accuse stesse, e a riconfermare tutta la stima che il Binni merita, per l’apertura intellettuale e lo sforzo con cui egli giunse a vincere la violenza morale che quel nefasto regime esercitava sulle coscienze. Il Binni per molti anni portò il suo contributo alla lotta clandestina che condussero coraggiosamente gli antifascisti perugini, ed entrò in rapporti con analoghi movimenti di altre città italiane, svolgendo un lavoro di collegamento e d’iniziativa tanto rischiose, quanto preziose e proficue. I concittadini del Binni possono bene esser grati a lui dell’onore che è venuto alla nostra città dalla sua opera di deputato alla Costituente, dalle sue prese di posizione civiche e politiche, e dall’alto suo valore intellettuale, che lo pone oggi come una personalità rilevante nella cultura nazionale.

La destra fa il suo sporco mestiere, e a Binni è chiaro il contesto politico della morte di Paolo Rossi e della furiosa campagna diffamatoria che ne è seguita. Gli sono chiare anche le incertezze, che non condivide affatto, con cui l’area politica di cui fa parte affronta la nuova situazione che l’assassinio di Paolo Rossi ha determinato, soprattutto la nascita e il rapido sviluppo di un movimento degli studenti e dei docenti universitari che persegue, con nuova radicalità, obiettivi di reale riforma dell’università e della scuola pubblica. Si sta aprendo una nuova stagione per la democratizzazione della società italiana.

Il 1966 si chiude con uno sciopero nazionale di tre giorni (1-3 dicembre), contro i palliativi della “riforma Gui”, che paralizza l’attività didattica e in numerose sedi universitarie vede svolgersi assemblee di discussione sull’arretratezza e inadeguatezza di un’università classista e autoritaria, incapace di rispondere agli stessi diritti costituzionali. Su queste posizioni si va formando un fronte compatto di studenti, assistenti e professori incaricati, nel silenzio iniziale dell’Associazione Nazionale dei Professori Universitari di Ruolo; a Roma lo schieramento dell’Anpur è rotto da alcuni docenti di ruolo (Visalberghi, Binni, Calogero, Gregory, Sapegno, Ripellino, Lombardo, Melchiori, Sasso) che partecipano allo sciopero nazionale di dicembre sospendendo l’attività didattica; superando le incertezze e gli attendismi, poco dopo anche l’Anpur si farà coinvolgere da un’agitazione che si estende e si rafforza rapidamente, in forme differenziate (assemblee, gruppi di studio e di progetto, sperimentazioni didattiche) ma all’interno di un unico grande movimento di riforma dal basso e trasversale ai partiti della sinistra, che mette a confronto le esperienze nelle diverse città italiane. Il movimento italiano comincia ad avere anche riferimenti internazionali e collegamenti con i movimenti che negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia, in Germania, inseriscono le lotte studentesche in prospettive politiche piú complesse, di cambiamento radicale delle società e dello scenario internazionale. Lo schieramento a fianco del popolo vietnamita contro l’imperialismo americano, il sostegno ai movimenti di liberazione in Africa e in America Latina, diventano terreno comune e internazionale di impegno politico per il movimento degli studenti universitari e medi e per le organizzazioni della sinistra. È un vero cambiamento di fase per la politica italiana, che mette alla prova, con risultati spesso deludenti, la capacità dei partiti della sinistra di rispondere ai nuovi bisogni che si vanno esprimendo.

Nel corso del 1967 il quadro politico italiano si precisa ulteriormente: la scoperta delle schedature del Sifar e del «Piano Solo», mentre in Grecia i militari attuano un colpo di Stato, mette a nudo i disegni golpisti della destra democristiana con la complicità del Quirinale e dei settori “moderati” e “atlantici” del centrosinistra; in risposta a questa strategia il movimento degli studenti si radicalizza, estendendo le occupazioni e impegnandosi su un terreno di contestazione politica complessiva, mentre alla sinistra del Pci si moltiplicano i gruppi politici che ne denunciano i tatticismi e una linea “revisionista” e compromissoria. L’area del Psi è attraversata da conflitti sempre piú accesi tra un riformismo vissuto dalla maggioranza nenniana come difficile sopravvivenza nella «stanza dei bottoni» e le istanze di riformismo radicale della minoranza lombardiana; anche sulla questione del Vietnam il partito è diviso, e soltanto la minoranza è chiaramente schierata nella denuncia dei bombardamenti americani e a favore di una soluzione politica che veda la partecipazione del Vietnam del Nord e del Fronte di Liberazione Nazionale che dirige la resistenza nel Sud. Ad aprile un gruppo di socialisti romani costituisce un «Comitato di iniziativa per la pace nel Vietnam» sulla base di un manifesto[130] firmato, tra gli altri, da Giuliano Amato, Binni, Visalberghi, e da alcuni studenti e lavoratori: nel documento si chiede l’immediata cessazione dei bombardamenti americani senza condizioni, l’avvio di negoziati di pace ai quali partecipino il governo americano, il Vietnam del Nord e il Fln, l’ingresso della Cina all’Onu ponendo fine al suo isolamento «che non è certo tra le ultime cause della pericolosa e contraddittoria fase che la Cina sta attraversando, caratterizzata da un lato da un genuino spirito rivoluzionario e dall’altro da pericolose involuzioni autoritarie e da un esasperato nazionalismo»; su questa linea «i socialisti romani decidono di assumere immediate iniziative […] convocando riunioni e assemblee popolari, nelle fabbriche, negli uffici e nelle università. S’impegnano a tradurre in una grande manifestazione popolare questa larga mobilitazione di base sui temi della pace e della distensione internazionale che oggi, come ieri e come sempre, sono patrimonio inalienabile del movimento socialista e democratico». Ma è una presa di posizione minoritaria alla quale la direzione del partito non riserva molta attenzione, e che non avrà conseguenze rilevanti.

In realtà il movimento politico si sta sviluppando fuori dai partiti, ed è in questo periodo e in questo clima che Binni si allontana definitivamente dal Psi dopo la precaria unificazione con il Psdi, sempre piú attento allo sviluppo della sinistra “extraparlamentare” e a quanto sta accadendo a livello internazionale: in Cina la “rivoluzione culturale”, con le sue durezze e le sue contraddizioni, sta proponendo una nuova prospettiva di superamento del modello sovietico, in Cecoslovacchia stanno emergendo le posizioni intellettuali e politiche della “primavera di Praga”; la questione del comunismo non è piú di ordine astrattamente teorico ma può e impone di essere affrontata nel divenire concreto della Storia. Proiezioni utopiche e concreta realtà della lotta di classe, in Italia e nel mondo, stabiliscono relazioni nuove e drammaticamente urgenti. Nelle università occupate la politica rivoluzionaria impone la sua centralità di strumento di trasformazione radicale dei rapporti di classe, al di là dei vincoli di un riformismo borghese che si limiti a garantire una decente manutenzione della società capitalistica, perpetuandone gli orrori. Su questi temi lavorano i gruppi di studio e ricerca all’Università di Trento, di Pisa, di Torino, rilanciando tesi e materiali nelle altre università, facendo vivere attraverso iniziative di lotta un nuovo rapporto tra studenti e classe operaia.

13. Il Sessantotto a Roma

Il corpo accademico, non solo all’Università di Roma, è in genere traumatizzato: lezioni interrotte da studenti che si prendono la parola, richiesta di una didattica che veda una reale partecipazione degli studenti nei processi formativi, superamento degli esami come giudizio insindacabile dei docenti; in quella polveriera che sta diventando l’università, la risposta generale dei “baroni” è un sostanziale disimpegno in attesa che la bufera passi. La reazione repressiva dello Stato, l’unico linguaggio che la Dc e le forze politiche collaterali intendano parlare, non fa che aggravare il clima di tensione. All’Università di Roma la scelta di Binni, e di numerosi docenti di sinistra, ordinari e incaricati, è invece quella di intensificare il loro impegno didattico sullo stesso terreno delle rivendicazioni studentesche, comunque ascoltate anche se non sempre condivisibili; nel 1968-69, il periodo del maggiore rafforzamento del movimento studentesco, a fianco delle lezioni frontali Binni moltiplica le attività seminariali, e come docente e intellettuale prende sistematicamente posizione contro la guerra in Vietnam, contro la repressione poliziesca, contro le aggressioni fasciste (il 16 marzo 1968 una nuova aggressione squadristica alla Facoltà di Lettere, guidata da Almirante e Caradonna, e i fascisti vengono respinti), a sostegno del libero sviluppo del movimento degli studenti e delle nuove esperienze della sinistra extraparlamentare di cui si sente parte, in un contesto ormai europeo e internazionale. Non si limita ad aderire a manifesti e appelli, è lui stesso a promuoverne, coinvolgendo l’Adesspi e l’Andu, l’Associazione nazionale docenti universitari che nasce per scissione dall’Anpur, polemizzando con le autorità accademiche e con la “zona grigia” che si esprime nella stampa e nei mezzi di comunicazione: è di Binni il testo di una dichiarazione collettiva di docenti ordinari di varie università, significativa del clima di tensione del periodo, che

sentono il dovere di denunciare pubblicamente la pericolosa e aggravata tendenza di autorità accademiche e ministeriali e di organi di ordine pubblico a rispondere ad esigenze ed azioni del movimento degli studenti con repressioni poliziesche, inammissibili oltretutto per il loro carattere di estrema durezza, in uno Stato democratico e nello spirito della nostra carta costituzionale. Denunciano altresí l’opera di istigazione ad una vera e propria “caccia allo studente” esercitata dalla stampa di destra e da alcuni organi di “informazione”, che non hanno mai voluto comprendere le ragioni di fondo del movimento degli studenti, espresse a volte in modo scomposto e convulso, ma originate da profonde cause obbiettive, pertinenti alla gravissima situazione universitaria attuale ed anche alle condizioni di imperfetta democrazia – troppo spesso piú formale che sostanziale – del nostro paese[131].

E al rettore D’Avack che vorrebbe trasformare i docenti in poliziotti, ingiungendo loro di denunciare «ogni tentativo di disturbo da parte degli studenti», non sono in molti, ma Binni c’è, a chiedere pubblicamente «al Rettore, ai Presidi e a tutti gli altri docenti di tutte le Facoltà […] di riaffermare solennemente l’autonomia didattica e disciplinare dell’Università, e la natura didattica della funzione dei docenti che riassume e subordina l’esercizio dei poteri disciplinari all’esercizio della loro missione educativa; di non richiedere né consentire l’intervento di forze di polizia all’interno dell’Università a meno che ciò non si renda necessario per espellere elementi estranei alla comunità universitaria che si introducano nell’Università per compiervi atti di violenza o di vandalismo; di chiedere di conseguenza l’allontanamento delle forze di polizia che ancora vi stazionano; di astenersi da denunce e interventi repressivi contro forme pacifiche di manifestazione del dissenso all’interno dell’Università; di essere personalmente presenti nel corso di manifestazioni studentesche per rendersi conto di persona dello svolgimento degli avvenimenti»[132].

Il 19 ottobre 1968 muore Aldo Capitini, a Perugia, per i postumi di un’operazione chirurgica. Il rapporto con Capitini, da sempre fondamentale per Binni, è proseguito ininterrottamente nel corso degli anni, e il confronto tra i due amici non ha mai avuto zone d’ombra, anche se Binni non ha mai condiviso con Capitini la scelta della nonviolenza pur rispettandone profondamente il valore etico. Ne ha condiviso invece la concezione della politica come impegno di radicale trasformazione della realtà, ben al di là dei vincoli e dei limiti di una politica priva di implicazioni culturali ed etiche e funzionale alla piccola gestione dell’esistente. Su questo terreno Capitini ha continuato a lavorare incessantemente, in posizione minoritaria e spesso da autentica voce nel deserto, insistendo sui temi generali ma non astratti della nonviolenza come scelta individuale ma anche come strumento di liberazione collettiva da tutte le cause della violenza, e della concezione complessa della realtà come coesistenza dinamica tra passato e presente, tra viventi e morti, sviluppando la sua proposta politica dell’«omnicrazia» da costruire con concrete pratiche di dialogo, ascolto e iniziativa, sulla linea dei Centri di orientamento sociale e dei Centri di orientamento religioso sperimentati nel dopoguerra, e della «compresenza».

Dal 1964 ha pubblicato e diffuso su reti di corrispondenti il mensile «Il potere è di tutti» che nel 1967[133] ha iniziato un puntuale confronto con le esperienze e le tesi del movimento studentesco, anche sulla base della propria esperienza di pedagogista. Dallo stesso anno ha pubblicato un altro periodico, «Azione nonviolenta», strumento di organizzazione culturale e politica. Intensa è stata anche, negli ultimi anni, la produzione di libri: in La compresenza dei morti e dei viventi[134], il libro di tutta una vita, difficile e geniale, ha esposto la sua posizione filosofica nei confronti della realtà; in Antifascismo tra i giovani[135] ha ricostruito, per dovere di memoria storica in tempi di denigrazione dell’antifascismo o di distrazione piú o meno intenzionale verso le sue componenti divenute minoritarie, gli anni della cospirazione antifascista e di preparazione della Resistenza; in Le tecniche della nonviolenza[136] ha proposto la sua concezione della nonviolenza come strumento di lotta, efficace nei suoi risultati soprattutto perché su un terreno autonomo ed estraneo al tradizionale confronto speculare con il potere, capace di produrre soggettività “altre”, consapevolmente libere e rivoluzionarie. E nello scritto autobiografico Attraverso due terzi di secolo[137], scritto nei mesi che precedono la morte, ha reso conto di tutto.

È Binni a pronunciare l’orazione funebre[138] per l’amico e maestro, davanti alla sua bara, nel cimitero di Perugia, il 21 ottobre 1968:

[…] Capitini fu un vero rivoluzionario nel senso piú profondo di questa grande parola: lo fu, sia dalla sua strenua opposizione al fascismo, di fronte ad ogni negazione della libertà e della democrazia (e ad ogni inganno esercitato nel nome formale ed astratto di queste parole), lo fu di fronte ad ogni violenza sopraffattrice, in sede politica e religiosa, cosí come di fronte ad ogni tipo di ordine e autorità dogmatica ed ingiusta (qualunque essa sia), lo fu persino, ripeto, di fronte alla stessa realtà e al suo ordine di violenza e di crudeltà. Questo non dobbiamo dimenticare, facendo di lui un sognatore ingenuo ed innocuo, e sfuggendo cosí alle nostre stesse responsabilità piú intere e rifugiandoci nel nostro cerchio individualistico o nelle nostre abitudini e convenzioni non soggette ad una continua critica e volontà rinnovatrice […].

Ed è Binni a dettare l’epigrafe per la tomba di Capitini: «Libero religioso e rivoluzionario nonviolento / pensò e attivamente promosse l’avvento / di una società senza oppressi / e l’apertura di una realtà liberata e fraterna».

Le parole che Binni dedica all’amico scomparso vengono da lontano e guardano lontano, in un lessico che appartiene alla “poetica” personale di Binni e Capitini, uniti da un colloquio profondo e da un comune tenace impegno etico e politico in direzione di una realtà «liberata e fraterna», un impegno e una tensione che hanno poco a che fare con l’apparente realismo della politica di mestiere e con i tatticismi dei partiti della sinistra. Da questo momento Binni proseguirà il suo colloquio con Capitini, tanto piú intenso e indignato quanto piú il messaggio rivoluzionario di Capitini verrà semplificato, edulcorato, deformato, banalizzato e usato strumentalmente, soprattutto dagli anni ottanta, da tanti professionisti di una nonviolenza rispettosa dell’ordine costituito. Un colloquio che si intreccerà, ancora una volta su un terreno comune, con gli studi leopardiani di Binni sempre piú sviluppati in direzione di una rilettura fortemente attualizzante delle implicazioni etiche, filosofiche e politiche della poetica leopardiana.

Nel novembre 1968, all’Università di Roma, nella Facoltà di Lettere, si riaccende lo scontro all’interno del corpo accademico, sui temi di una “riforma” proposta dal preside Lombardi e votata dal Consiglio di Facoltà, che riaccentra sui docenti ogni decisione relativa alla didattica, escludendo studenti e assistenti, e accentua il carattere selettivo e classista dell’università prevedendo corsi differenziali per gli studenti lavoratori, di fatto esclusi dai seminari. Gli italianisti della Facoltà, dai docenti ordinari Binni e Sapegno, agli incaricati Riccardo Scrivano, Alberto Asor Rosa, Mario Costanzo, Gennaro Savarese, agli assistenti Giulio Ferroni, Enrico Ghidetti, Amedeo Quondam, Rosanna Pettinelli, Pino Fasano, Achille Tartaro e altri, respingono in blocco la “riforma” di Lombardi. In un’intervista a «La Fiera Letteraria» Binni spiega la propria posizione rispetto alla piccola “riforma” di Lombardi:

I tempi delle mediazioni e delle soluzioni a metà sono finiti, oggi è necessaria una vera riforma che operi delle scelte di fondo, pretendendo come base di partenza le richieste del movimento studentesco: diritto allo studio di chi ne abbia la capacità, larga rappresentatività nel governo degli atenei, pieno impiego e moltiplicazione dei docenti, edilizia e collegi universitari. Finora gli studenti e i docenti hanno pagato di persona per l’incapacità della classe politica. Non si vede perché debbano continuare a essere le vittime di esperimenti che sin dall’inizio sono destinati al fallimento. Il problema oggi è uno solo: o lo Stato si impegna con tutte le sue forze per risolvere il problema universitario, o è inutile parlare di riforma[139].

La “riforma” Lombardi non ha alcun seguito, e nel corso del 1969 numerosi istituti di Lettere, tra cui quello di Binni, sostanzialmente si autogestiscono. Sono altrettanto numerosi i docenti che rinunciano a svolgere il loro impegno didattico in una Facoltà che è diventata uno dei centri piú attivi del movimento degli studenti, con cui rifiutano ogni confronto. Al contrario, nella primavera del 1969, Binni e Sapegno, e gli incaricati e assistenti dell’istituto di italianistica, organizzano con gli studenti una serie di gruppi di studio e di ricerca su temi concordati: «L’intellettuale italiano del dopoguerra, con riferimento all’opera e al pensiero di Gramsci», «Elio Vittorini e Il Politecnico», «Avanguardia e società industriale», «Il meridionalismo nella letteratura», «Rapporti fra cinema e letteratura nella società contemporanea», «Letteratura e società nell’opera di Carlo Emilio Gadda». A fianco di questi nuovi gruppi di studio, Binni e i suoi assistenti proseguono l’attività dei seminari avviati nel 1967 collateralmente all’ultimo corso su Leopardi. La posizione di Binni è chiara: il movimento degli studenti può svolgere un ruolo estremamente positivo in una reale riforma dell’università e della scuola pubblica, dal basso e trasversale ai partiti della sinistra, innescando un cambiamento dell’intera società italiana. Nel marzo 1969 una dichiarazione di piú di 30 docenti universitari di ruolo, di varie università, rende ancora piú esplicito il collegamento con il movimento degli studenti:

[…] sui principi fondamentali dell’autogestione della comunità universitaria, del ruolo unico dei docenti, del tempo pieno per tutti (docenti e studenti), i sottoscritti dichiarano di non essere disposti a discutere, finché tali principi non vengano intesi come effettivi strumenti di un rovesciamento della scuola di classe e pertanto attuati da una volontà politica che riconosca il carattere di un investimento produttivo alla spesa pubblica per l’istruzione e la inserisca in modo prioritario nella programmazione economica nazionale. Una tale volontà politica è forse difficilmente realizzabile nell’attuale contesto degli equilibri economici, sociali e politici del nostro Paese: ma è sicuramente altrettanto difficile e persino velleitario sperare in una riforma di struttura che insieme non rimetta in discussione il complesso delle strutture attualmente operanti. Ed è proprio questo il punto sul quale i sottoscritti richiamano l’attenzione delle forze sociali e delle forze politiche già direttamente impegnate nel senso di una radicale ristrutturazione della nostra società. E rivolgono anche a loro un appello che eventualmente le stimoli ad approfondire e a verificare operativamente gli obiettivi avanzati dell’azione comune[140].

I firmatari: Arcangelo Leone De Castris, Sapegno, Binni, Paolo Chiarini, Biagio De Giovanni, Carlo Ferdinando Russo, Vittorio Bodini, Giorgio Melchiori, Ladislao Mittner, Cesare Cases, Carlo Salinari, Giuseppe Petronio, Gianfranco Folena, Maria Corti, Cesare Segre e molti altri.

14. La nuova sinistra e gli anni settanta

Il 1968 è stato l’anno degli studenti, il 1969 è l’anno del fronte comune tra studenti e classi lavoratrici, tra studenti e operai, mentre si rafforzano le diverse organizzazioni della “nuova sinistra”. Il Pci, che inizialmente ha sostenuto il movimento degli studenti, già nel corso del 1968 ha cominciato a prenderne distanza; nel giugno Giorgio Amendola lo ha attaccato su «Rinascita» definendolo «un rigurgito di infantilismo estremista e di vecchie posizioni anarchiche»; in agosto l’invasione sovietica della Cecoslovacchia ha aperto un duro confronto in tutta la sinistra sulla tradizione comunista, lacerando lo stesso Pci: si forma il gruppo dissidente del «Manifesto» che l’anno successivo sarà espulso e troverà la sua attiva collocazione nella nuova sinistra. Ma è il collegamento sempre piú diretto tra studenti e operai, tra ceti medi e classe operaia, il dato veramente nuovo della situazione: nel novembre 1968 allo sciopero generale indetto da Cgil, Cisl, Uil per la riforma delle pensioni ha partecipato massicciamente in ogni città il movimento degli studenti universitari e medi; nel dicembre, l’assassinio di due braccianti ad Avola da parte della polizia ha determinato un’ondata di scioperi e agitazioni in tutta Italia. Al movimento che cresce, coinvolgendo ogni settore della società italiana e la stessa area cattolica (a Firenze la comunità dell’Isolotto si è costituita a ottobre) la Dc al governo risponde con operazioni di trasformismo e piccole aperture a sinistra, ma soprattutto con una dura repressione nei confronti delle manifestazioni operaie. Il 1969 è un susseguirsi ininterrotto di mobilitazioni e scontri. Ad aprile, a Battipaglia, la polizia uccide due operai durante uno sciopero generale, e la risposta a livello nazionale è durissima, nelle fabbriche, nelle università, nelle scuole: un appello contro la repressione firmato da 204 docenti e assistenti delle varie università italiane (i primi quattro firmatari sono De Castris, Cases, Binni e Sapegno) è un documento significativo del clima del momento:

[…] persuasi della oggettiva connessione che, pur nella diversità delle situazioni, tuttavia collega episodi del genere alla stessa mentalità autoritaria e repressiva che dichiaratamente minaccia il mondo della nostra scuola, o sabotando possibili riforme o proponendo riforme insufficienti e deludenti, rivolgono un appello a tutte le forze sociali operanti nella scuola italiana, affinché da piú parti e da tutti i settori qualificati e impegnati dell’opinione pubblica giunga all’esecutivo, al legislativo ed alle massime autorità dello Stato una chiara voce di protesta e di denuncia contro ogni tentativo di involuzione autoritaria della società italiana e di repressione diretta e indiretta nel mondo del lavoro e della scuola, là dove la società si forma e prende coscienza del proprio destino[141].

Ma l’involuzione autoritaria della società italiana è già in corso, attraverso la strategia della tensione che, avviata nel 1965, si abbatte proprio nel 1969 sui movimenti di lotta che stanno contagiando l’intera società italiana a livello culturale, sociale e politico. Preannunciata dalle bombe fasciste alla Fiera di Milano, in aprile, e dagli attentati ai treni nell’agosto, la strategia della tensione – che vede uniti servizi segreti, apparati dello Stato e organizzazioni neofasciste – tre mesi dopo lo sciopero generale dei metalmeccanici che ha segnato l’inizio dell’”autunno caldo” e il giorno successivo all’approvazione in Senato dello Statuto dei lavoratori, il 12 dicembre colpisce, con la strage terroristica alla Banca dell’Agricoltura di Milano e i simultanei attentati a Roma, l’intera società italiana. È una “strage di Stato” la cui natura, nonostante i depistaggi della polizia che si inventa la pista anarchica e il suicidio di Pino Pinelli, è immediatamente chiara, come chiaro è il suo messaggio per chi, tra i tanti che prendono un’immediata posizione in questi giorni drammatici, il 13 dicembre firma un appello di docenti dell’Università di Roma sottoscritto da Federico Caffè, Chiarini, Gregory, Lombardo Radice, Binni, Giuseppe Montalenti, Carmelo Samonà, Sapegno, Sylos Labini, Visalberghi e altri:

La rete preordinata dei bestiali ed efferati attentati di Milano e Roma ha aperto gli occhi della maggioranza degli italiani sul disegno criminoso di una cricca di delinquenti politici, probabilmente prezzolati, volto a spingere il Paese verso il caos per preparare una soluzione totalitaria di destra. I sottoscritti docenti dell’Università di Roma, consapevoli di farsi portavoce di un sentimento di sdegno profondo e gravissima preoccupazione comune a tutti gli uomini di cultura democratici, fanno perciò appello al governo perché affronti decisamente tale minaccia, e non limitandosi a vietare provocatorie adunate fasciste come quella già prevista per domenica 14 dicembre a Roma, che mostrava di rientrare nel suddetto disegno o comunque, obbiettivamente, di contribuirvi, individui e colpisca alla radice le forze responsabili della drammatica situazione che va delineandosi nel Paese[142].

E Binni negli anni successivi interverrà sistematicamente, con dichiarazioni e adesioni a manifesti politici, contro le trame piú o meno occulte, contro la repressione, e a sostegno dei movimenti di lotta studenteschi e operai, sostanzialmente condividendo le posizioni del «Manifesto».

La produzione critica di Binni è proseguita intensa nel biennio 1968-69, attraverso la «Rassegna della letteratura italiana» e la pubblicazione di libri. Nel 1968 ha pubblicato con Sapegno la Storia letteraria delle regioni d’Italia[143]: all’amata Umbria ha dedicato un profilo storico-letterario di grande efficacia[144]. Nello stesso anno è uscito un risultato importante dei suoi studi settecenteschi, Il Settecento letterario[145], un quadro complessivo del secolo con una nuova attenzione agli autori “minori”, inseriti nelle tendenze del gusto e delle poetiche, e restituiti agli intrecci complessi della storia letteraria: un lavoro immenso, con scadenze editoriali vincolanti, che a Binni costa molta fatica. Nel 1969 esce un’edizione di Tutte le opere di Leopardi[146]; nel saggio introduttivo, Leopardi poeta delle generose illusioni e dell’eroica persuasione, che Binni ripubblicherà nel 1973 nel volume La protesta di Leopardi[147] con altri studi leopardiani successivi al 1969, viene tracciato un profilo del «nostro massimo poeta-pensatore degli ultimi secoli» in cui il metodo storico-critico di Binni ricostruisce il percorso complesso della poetica leopardiana e ne proietta nel presente le implicazioni filosofiche e politiche; la conclusione del saggio, dopo aver analizzato la «grande poesia» della Ginestra «(la piú sconvolgente e moderna di questo “nostro” poeta) coerentemente rivoluzionaria nella sua costruzione e nel suo linguaggio, nella sua tecnica e nel suo ritmo», è significativa dell’impegno critico e politico di Binni nel valutare le proiezioni future della poesia leopardiana:

Arduo sarebbe prospettarsi – con un “se” assurdo – la precisa continuazione di questo futuro nella ipotetica continuazione della vita leopardiana e domandarsi la precisa configurazione di ulteriori apporti su questa onda lunga scatenata dall’ultimo Leopardi della Ginestra, immaginandolo, col De Sanctis, sulle barricate del ’48, con altri, su quelle dei nuovi movimenti rivoluzionari democratici e proletari. Quello che è certo è che Leopardi con la Ginestra concludeva – sulle soglie della morte – la sua formidabile esperienza di vita e di poesia, non in una misura pacificatrice e rasserenante, ma in un’apertura inquietante e sollecitante che supera, nel suo tempo e a livello europeo, ogni altra soluzione poetica e morale, cosí come la crisi che essa comporta non appare quella di “un quarto d’ora” (per dirla col De Sanctis), se la poesia scaturita da quella crisi e culminata nella Ginestra ci parla, nella sua consistenza poetica, ma con prospettive problematiche ancora vive e dense di nodi irrisolti. E soprattutto cosí fortemente ci dimostra, con una suprema lezione di poesia e di verità morale, la forza rivoluzionaria della grande poesia e il fatto che, se coraggio, vigore intellettuale, coscienza morale non fanno di per sé poesia, la grande poesia non sorge che sul coraggio della verità, su di una grande coscienza morale, sulla profonda partecipazione alla vita degli uomini. E fra tanti camuffamenti e “maschere” – alibi di letterati tanto piú frivoli e “letterati” quanto piú cupo e drammatico, eppur non chiuso, è il presente – quella voce di poesia tuttora porta stimoli allo stesso senso e significato della letteratura. «Que peut la littérature?» ci si domanda spesso oggi. Forse la rinnovata lettura e la comprensione di questo grandissimo scrittore può aiutare meglio a rispondere.

Nel 1969 Binni pubblica inoltre un volume di Saggi alfieriani[148], che comprende Vita interiore dell’Alfieri del 1942 e numerosi studi successivi. Nella premessa a una successiva riedizione del volume, nel 1981, Binni ribadirà la congenialità, fin dagli anni quaranta, con «alcune delle mie personali vicende di studioso e di intellettuale attivo anche in direzione etico-politica, di “letterato-antiletterato” nel senso della lezione di quel grande intellettuale-poeta, “disorganico” per eccellenza, anticonformista per natura e volontà, cosí diverso ed opposto ai letterati cortigiani di tutte le corti e di tutti i regimi, auctoritas di coraggio intellettuale e morale, di altezza poetica e teatrale vertiginosa, “fratello maggiore” di Foscolo e soprattutto del Leopardi, a cui potentemente prelude e alla cui luce, tanto piú profonda e irraggiante, meglio ci rivela la carica dirompente delle sue intuizioni intellettuali-poetiche».

È questa condizione di «letterato-antiletterato», di intellettuale «disorganico» a tutti i regimi e a tutte le corti che Binni riconosce a se stesso negli anni settanta; non ha illusioni sulle magnifiche sorti e progressive della Storia e della condizione umana, ma proprio per questo sente il dovere intellettuale e morale di opporre, da leopardista leopardiano, ogni prospettiva di possibile liberazione alla forza delle costrizioni sociali e culturali, anche a costo di un “eroico” isolamento giacobino.

E insiste, responsabile della propria coerenza[149], sui temi di fondo della propria poetica personale, con la sua attività di studioso e prendendo sistematicamente posizione sugli avvenimenti che stanno trasformando la società italiana, terreno di uno scontro sociale sempre piú duro tra evoluzione democratica e involuzione autoritaria. Dagli anni della Resistenza e dell’immediato dopoguerra sa bene che esistono due Italie, e che l’Italia realmente democratica è sempre stata ed è minoritaria rispetto a quella zona grigia maggioritaria che sostiene la Dc e le varie forze politiche di destra, ma anche che l’unica alternativa possibile è lo sviluppo di quei processi di egemonia culturale e politica, lenti e faticosi, di cui ha parlato Gramsci, scanditi da esperienze sempre piú avanzate di autonomia delle classi lavoratrici dal potere borghese e dal sistema capitalistico. In questi anni di strategia della tensione (nel dicembre 1970 il tentativo golpista di Valerio Borghese con il sostegno di ambienti dell’esercito, dei servizi segreti e della Loggia P2, scoperto nel marzo del 1971; nel maggio 1974 la strage di Brescia) alla vigilia dello scontro militare tra lo Stato e le organizzazioni di lotta armata che produrrà un tragico corto circuito dopo la metà degli anni settanta, sia pure all’interno di un profondo cambiamento culturale della società italiana (il nuovo protagonismo della classe operaia, l’affermazione dei diritti civili sui temi del divorzio e dell’aborto, il femminismo), Binni segue con attenzione l’elaborazione teorica della nuova sinistra in Italia e in Europa. È anche un periodo di grandi letture e riletture, di Marx, di Trotzky, di Rosa Luxemburg, dell’esperienza internazionale del “comunismo” distinguendo le linee libertarie, eretiche e rivoluzionarie dalle degenerazioni dello stalinismo sovietico e delle sue eredità revisioniste. La strage di Stato e il processo di Stato che ne segue, con continui depistaggi e insabbiamenti delle responsabilità neofasciste e istituzionali diventa un terreno di scontro aperto tra destra e sinistra; Binni, che nel giugno 1971 ha aderito a una durissima denuncia pubblica[150] contro i responsabili della morte di Pinelli («i commissari torturatori, i magistrati persecutori, i giudici indegni») chiedendone la rimozione e l’incriminazione, nel novembre dello stesso anno fa parte del comitato promotore di un affollatissimo dibattito pubblico al teatro Eliseo di Roma, «Giustizia e repressione oggi in Italia: dal caso Pinelli ai processi di Torino al caso Valpreda», che si apre con gli interventi di Norberto Bobbio, Camilla Cederna, Eduardo Di Giovanni e altri. Alla fine dello stesso anno viene eletto presidente della Repubblica il democristiano Leone, con i voti determinanti dei repubblicani, dei socialdemocratici e dei missini: è una precisa svolta a destra del quadro politico, la formazione di un “blocco d’ordine” istituzionale e in aperta contiguità con il dilagare del terrorismo neofascista, che un duro appello firmato da un migliaio di intellettuali[151] (Binni è tra i firmatari) puntualmente denuncia:

In quest’occasione è emerso un blocco di forze moderate, imperniato sui liberali, sulla destra democristiana, sui socialdemocratici e sui repubblicani che, trovandosi a fianco il partito neofascista, ha impedito una scelta corrispondente all’attesa della maggioranza progressista del nostro Paese. Tale fronte politico è lo stesso che da anni ostacola, nel Parlamento e nei settori piú diversi della vita pubblica, con i sistemi piú spregiudicati, il già difficile cammino delle riforme democratiche. Questa strategia è ideologicamente coordinata e politicamente svolta anche da partiti che per anni si sono presentati all’opinione pubblica nelle vesti e con le funzioni di incorruttibili moralizzatori del costume nazionale e di “coscienza critica” della sinistra italiana e che in effetti risultano strumenti sempre piú attivi della politica di classe della borghesia capitalistica italiana. […] La nostra preoccupazione non nasce però dall’analisi delle attuali vicende di questo (il Pri, n.d.r.) e di altri partiti “laici” e “democratici” che, come è noto, dal dopoguerra ad oggi sono stati corresponsabili di gravi operazioni politiche antidemocratiche che hanno avuto luogo in Italia (basti ricordare l’immorale sostegno alla “legge truffa” del 1953), ma dalle pericolose prospettive che la loro azione politica apre alla democrazia italiana. Contro questa minaccia pensiamo che l’opinione pubblica debba essere messa in guardia in nome di una precisa visione delle necessità che ha l’Italia di uscire da una torbida atmosfera politica che può gravemente compromettere ogni autentico programma innovatore. Oggi occorre liberare la via dello sviluppo del Paese dagli impedimenti che le forze moderate pongono con evidenti fini reazionari come dimostrano gli episodi piú recenti di intimidazione manifestati da certi ambienti della magistratura, di terrorismo ideologico contro le espressioni piú vive della scuola, di repressione nelle fabbriche, nelle aziende e nei centri di informazione. La cultura democratica italiana respinge con decisione tale disegno e si impegna a promuovere tutte le iniziative politiche che possano contribuire a determinare la radicale trasformazione delle strutture sociali attraverso un ampio e capillare sviluppo della democrazia e una svolta negli indirizzi politici del paese.

Nello scontro di classe che divide il paese, ormai coinvolgendo in profondità le classi popolari spinte a sinistra dal nuovo protagonismo operaio e dall’attivismo dei gruppi politici della nuova sinistra, i fronti opposti si compattano, e i “laici” liberal-proprietari ritrovano la loro naturale collocazione in una destra che accentua le sue vocazioni golpiste. A sinistra, la contestazione del Sessantotto ha prodotto sviluppi importanti avviando trasformazioni culturali decisive e maggioritarie negli ambienti culturali, attraverso le nuova progettualità delle pratiche antiautoritarie nella scuola («L’erba voglio» di Elvio Fachinelli, è una delle esperienze di riferimento), nella medicina («Medicina democratica» di Giulio A. Maccacaro entra nei sindacati e nelle fabbriche), nella psichiatria (le pratiche di liberazione di Franco Basaglia), nell’informazione (il movimento dei giornalisti democratici), nella magistratura («Magistratura democratica»), nell’esercito (il movimento dei «proletari in divisa» organizzato da Lotta Continua), nelle stesse carceri, mentre nelle fabbriche si rafforzano le esperienze di “autonomia operaia” dalle catene di comando dell’organizzazione capitalistica, e nei territori si moltiplicano le reti dell’“antifascismo militante” e del contropotere popolare attraverso comitati di base a forte partecipazione popolare. I grandi partiti della sinistra sono coinvolti e spesso travolti dall’ondata di politicizzazione diffusa che pone all’ordine del giorno un vero e profondo cambiamento della società italiana.

Il colpo di Stato in Cile, l’11 settembre 1973, determina un’ulteriore radicalizzazione dei movimenti e, nella direzione del maggiore partito della sinistra, il Pci, la strategia berlingueriana del «compromesso storico» con la Dc per un governo di unità nazionale che affronti, con uno spostamento a sinistra dell’asse di governo, l’intera questione della democrazia in Italia. Il confronto a sinistra è durissimo, sul compromesso storico con il partito della strategia della tensione, sulla necessità di opporre alla violenza di Stato una controviolenza che ne disarticoli gli apparati golpisti. In alcune aree della nuova sinistra incontrano un crescente favore le azioni di “propaganda armata”, inizialmente senza spargimento di sangue, delle Brigate Rosse attive dal 1970 nelle grandi fabbriche del nord. La “nuova resistenza” dell’antifascismo militante trova consensi in numerosi ex partigiani e in settori della stessa base del Pci, in nome di un collegamento esplicito alla Resistenza del 1943-45, incompiuta e tradita. Dal maggio 1974 (dopo poche settimane dalla vittoria referendaria sul divorzio, la strage fascista di Brescia colpisce il movimento sindacale) la situazione assume caratteri nuovi e drammatici, innescando una spirale di azione e reazione che negli anni successivi produrrà un durissimo confronto militare tra gli apparati dello Stato, il terrorismo nero e le sempre piú numerose formazioni armate della sinistra rivoluzionaria; si crea in tutto il Paese un clima di tensione quotidiana e di profonda instabilità. Nel maggio 1975 la Camera approva la legge Reale sull’ordine pubblico che introduce il fermo di polizia e autorizza l’uso delle armi da parte della polizia, con la sola opposizione del Pci: la società italiana viene militarizzata, mentre il sistema politico appare bloccato, nonostante una forte affermazione della sinistra nelle elezioni amministrative dello stesso anno, e un grande successo elettorale del Pci nel 1976. Con le elezioni del 1979 si inverte la tendenza della progressione elettorale della sinistra e inizia un duro conflitto tra il Psi, di cui Craxi è stato nominato segretario nel 1976, e il Pci, mentre le formazioni politiche della nuova sinistra si frantumano in un’area del tutto minoritaria, e prosegue il confronto, ormai esclusivamente militare, tra lo Stato e le organizzazioni armate nate dalla nuova sinistra, mentre lo stragismo fascista, con le sue coperture istituzionali, continua a massacrare il Paese (il 2 agosto 1980, la strage di Bologna; il 20 marzo 1981, la Corte d’appello di Catanzaro assolve tutti gli imputati della strage di Piazza Fontana).

Nel corso dei drammatici anni settanta Binni non ha mai fatto mancare la propria adesione ai movimenti di lotta della sinistra, intervenendo per la verità sulla “strage di Stato” e la scarcerazione di Pietro Valpreda[152], contro la guerra in Vietnam e per la ricostruzione del Paese dopo la sconfitta americana[153], a sostegno della lotta antifranchista in Spagna[154], dei movimenti guerriglieri in America Latina[155], della resistenza cilena[156] contro la presenza delle basi militari americane e sovietiche in Italia e nel mondo[157], a sostegno della campagna per il divorzio[158] e per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza[159], contro le restrizioni delle libertà civili introdotte dalla legge Reale sull’ordine pubblico[160], a sostegno del movimento degli studenti[161]. Nel 1975, insieme con Giuseppe Branca, Carlo Galante Garrone, Riccardo Lombardi, Guido Quazza e Umberto Terracini, si propone come testimone della difesa di G. B. Lazagna, l’ex comandante partigiano della Resistenza genovese, già arrestato nel 1974 per “banda armata”, scarcerato e di nuovo arrestato, accusato di far parte delle Brigate Rosse[162]; Binni, che ha incontrato Lazagna a Roma dopo il suo primo arresto e ne conosce le posizioni, ne prende pubblicamente le difese (anche se le testimonianze a favore di Lazagna non saranno mai raccolte dalla magistratura). Il punto di vista di Binni sulla lotta armata delle formazioni di sinistra, ed è anche la posizione di Lazagna, è chiaro: non la condivide ma la considera un fenomeno del tutto interno alla drammatica situazione italiana, e si rifiuta di avallare i disegni autoritari con cui gli stragisti di Stato, visibili e occulti, in nome della lotta al “terrorismo” attaccano la Costituzione e i movimenti. Nell’agosto del 1976 propone un incontro, che si terrà a ottobre nella sua abitazione romana, ad Aldo Natoli, Carlo Cassola, Guido Aristarco, Vasco Pratolini, Lelio Basso (che non potrà partecipare), per concordare un’azione comune di «liberi comunisti», espressione che Cassola attribuisce a Binni in una lettera successiva all’incontro.

Come sempre, impegno politico e lavoro intellettuale sono in Binni, anche in questi anni, inseparabili. In questo periodo turbolento e scandito da uno stillicidio di episodi drammatici, in un’alternarsi continuo di indignazione, preoccupazione e motivi di speranza in una prospettiva di avanzata democratica, prosegue la sua attività di studioso e critico militante. Insiste sui temi della Protesta di Leopardi (il volume, pubblicato nel 1973, è stato un successo editoriale e ha aperto un ampio dibattito critico), e li propone al dibattito politico-culturale; in un’intervista del febbraio 1974 all’«Avanti!», dichiara:

[…] Disse una volta Thomas Mann che era necessario per la civiltà tedesca che Marx leggesse Hölderlin (e nella cultura di sinistra tedesca si è cercato – con un’ottica assai diversa da quella manniana – di rispondere in tal senso fino al tentativo didattico-teatrale di Peter Weiss). Direi che anche per noi è essenziale che Marx legga Leopardi, che la sinistra italiana arricchisca la sua problematica, la sua doverosa lotta lucida e appassionata, priva di illusioni trionfalistiche e di miti dogmatici chiusi, con la energica lezione che scaturisce dalla grande opera leopardiana, nella sua disperata serietà, nel suo pessimismo energico, nel suo accertamento della resistenza di limiti della condizione umana, che escludono facili paradisi in terra, mentre comandano (la lezione suprema e rivoluzionaria – per temi e per coerente, intera, moltiplicatrice, modernissima forma poetica – della Ginestra) una strenua disposizione dell’intelligenza e della volontà a lottare, con l’arma della verità, dovuta a tutti, per una società di liberi ed eguali, estremamente ardua e interamente diversa da quella in cui tuttora, drammaticamente, viviamo[163].

Frequenta assiduamente l’Accademia dei Lincei di cui è socio nazionale dal 1977, lavora a lungo su Foscolo (nel 1978 è presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni foscoliane, di cui apre le manifestazioni con una lezione all’Accademia dei Lincei, e nello stesso anno succede a Mario Fubini nella presidenza del Comitato per l’edizione nazionale delle opere di Ugo Foscolo), con saggi monografici e interventi a convegni, che nel 1982 raccoglierà nel volume Ugo Foscolo. Storia e poesia[164], e, sentendo avvicinarsi la vecchiaia e la conclusione del suo impegno universitario, comincia a ricostruire i momenti essenziali del proprio percorso: nel saggio Aldo Capitini e il suo «Colloquio corale», del 1974, mette in luce il valore della produzione poetica di Capitini, generalmente considerata una produzione minore, e riscoprendone invece la feconda centralità nel suo pensiero e nel suo linguaggio profetico-politico; nello scritto L’antifascismo a Perugia nel periodo di preparazione della Resistenza[165], del 1975, ricostruisce, attraverso la propria esperienza diretta, il periodo della cospirazione antifascista e della proposta politica del liberalsocialismo per concludere con uno sguardo al presente:

Infine – a conclusione di questo breve scritto richiestomi come parziale recupero di ricordi sul periodo, a Perugia, dell’attività antifascista clandestina e della preparazione della lotta armata della Resistenza – si permetta ad uno dei tanti partecipanti di quel lontano periodo di riagganciare il passato (che vale solo se è forza per il presente-futuro) alla situazione attuale, che vede Perugia capoluogo di una Regione rossa e amministrata, al Comune e alla Provincia, dai partiti della sinistra, ma anche città violentemente attaccata dal nuovo fascismo. Proprio mentre rimeditavo su questi ricordi, mi giungevano le notizie della situazione grave della nostra città [Binni si riferisce a violenze fasciste per le vie di Perugia, n.d.r.] e un’indignazione profonda si mescolava a una persuasione energica. Indignazione per un ripresentarsi apparentemente assurdo di forze già una volta duramente battute e condannate dalla storia, persuasione della vitalità delle forze popolari antifasciste che batteranno la violenza fascista e le forze piú profonde e insidiose che l’appoggiano, cosí come in quel lontano passato seppero opporsi validamente alla dittatura fascista e contribuirono alla sua disfatta. Cosí anche questi ricordi e queste giuste celebrazioni della lotta della Resistenza e dell’attività clandestina che la preparò perderanno ogni carattere “commemorativo” e retorico e potranno aggiungere uno stimolo a ciò che piú conta: l’attuale impegno antifascista e, per molti di noi, la volontà persuasa di contribuire, anche nel nostro Paese, alla costruzione, pur cosí difficile, di una nuova società che realizzi l’esito positivo del dilemma luxemburghiano «socialismo o barbarie».

15. Il riflusso degli anni ottanta

Gli anni ottanta segnano un periodo di riflusso dei movimenti di massa, mentre vengono alla luce nuove trame che si intrecciano con politica e affari; nel 1981 vengono scoperti gli elenchi degli affiliati alla Loggia massonica P2 di Licio Gelli, che rivelano un centro di potere occulto che ha svolto un ruolo non secondario nella strategia della tensione e nell’attacco alla Repubblica costituzionale: il suo eversivo «Piano di rinascita nazionale» orienterà le politiche del craxismo e dei suoi frutti avvelenati negli anni novanta, “tangentopoli” e la peste del berlusconismo.

Sono, per Binni, anni tetri e ignobili. Il paesaggio sociale è sconfortante. Un ciclo di possibili cambiamenti si sta chiudendo di nuovo.

Comincia a ripercorrere la propria produzione critica, pubblicando materiali di corsi universitari (Monti poeta del consenso, 1981[166]) e raccogliendo saggi dispersi (Incontri con Dante, 1983[167]), mentre sulla «Rassegna della letteratura italiana» prosegue la sua attività di sistematico recensore degli studi settecenteschi. Nel 1984, su proposta di Roberto Abbondanza, assessore alla Cultura della Regione Umbria, raccoglie gli scritti perugini e umbri nel volume La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri[168], un libro che gli rimarrà particolarmente caro. E, sul filo dei ricordi familiari, inizia a ricostruire il proprio retroterra esistenziale e culturale, a cominciare da una ricerca del 1980 sullo zio materno Augusto Agabiti[169] che lo riporta ancora una volta a scavare nel proprio retroterra perugino: del 1982 è la prima stesura di uno scritto autobiografico, Perugia nella mia vita. Quasi un racconto[170], sul quale ritornerà nel corso degli anni per poi chiuderlo il 4 novembre 1997, a poche settimane dalla morte. Ma è sempre Leopardi il centro delle sue riflessioni, letterarie e politiche. E gli avvenimenti drammatici e deludenti degli anni ottanta, il decennio del riflusso dei movimenti, della sconfitta operaia, del dilagare degli intrighi piduisti e della craxiana «Milano da bere», delle rappresaglie contro l’egualitarismo degli anni sessanta e settanta, del riflusso nel privato egoistico del consumismo, non fanno che riportarlo continuamente al pensiero e alla poesia di Leopardi, al messaggio sconvolgente della Ginestra.

In questi anni Binni è iroso e indignato, e assume il compito di farsi portavoce del messaggio leopardiano in una società che sta smarrendo il senso della Storia e della condizione umana. In un’intervista del 1980 a «l’Unità»[171] sull’attualità di Leopardi, all’intervistatore che osserva «Una carica anticipatoria che, forse, investe anche alcuni nodi importanti di quella dialettica tra “pubblico” e “privato” che si è affacciata con prepotenza sulla scena della vita politica e sociale», risponde:

Infatti. Chiunque abbia presenti i pericoli mortali che incombono sul nostro presente-futuro (dall’uso dell’energia nucleare, all’inquinamento ecologico, dall’interessata massificazione consumistica della società tardo-capitalistica alla stessa difficoltà di nuove società che per molti aspetti riproducono gli errori di quella borghese) ben avverte come Leopardi comandi a tutti noi uno sforzo continuo di rifondazione della stessa nozione e prassi sociale e politica che, secondo le parole di Marx, dovrebbe farci “liberi ed eguali”. Ma senza certezza e garanzia di successo, senza esiti di un’impossibile felicità e sempre nella lucida consapevolezza dei limiti e delle contraddizioni dell’individuo: delle stesse realtà della malattia, della morte, della vecchiaia, della caducità della terra e del cosmo.

E dell’atteggiamento di Binni nei confronti di una situazione politica e sociale che si va rapidamente degradando è documento significativo un ricordo di Parri, Un volto nobile fra tanti ceffi ignobili[172], scritto nel dicembre 1981, subito dopo la morte di «Maurizio»; Binni ha conosciuto Parri nel 1938 a Milano, lo ha ritrovato all’Assemblea costituente e nelle vicende tormentate del dopoguerra, e poi di nuovo a Roma negli anni sessanta:

Profondamente pessimista ed esperto dei vizi profondi del nostro paese e della sua classe dirigente, Parri opponeva la sua onestà, la sua instancabile caparbietà intransigente, estremamente consapevole della sua essenziale diversità. […] Ma poi mi dico che è giusto, che non c’era e non c’è posto, in un paese cosí degradato, per un uomo come Parri, che un volto nobile come il suo non può essere riconosciuto dove compaiono continuamente tanti visi ignobili quali sono quelli di tanti nostri reggitori democristiani agli occhi di un paese (e di un’opposizione) che hanno tollerato a lungo il viso risibile di un capo dello Stato che ballava la tarantella, che faceva le corna agli studenti che giustamente lo fischiavano, che parlava come un paglietta di infimo ordine (Leone, n.d.r.) e che tuttora tollera i visi di sacrestani furbastri pseudo-scrittori di melensi libri di papi e di altre simili amenità (Andreotti, n.d.r.), di mediocri corporativisti aspiranti pittori (cui non mancano gli elogi di intellettuali artisti dell’opposizione), di ministri che scrivono alate poesie o che si esibiscono in suonate al pianoforte (la cultura e l’arte sono finalmente al potere!), di politici che frequentano l’eletta compagnia dei Caltagirone, dei Sindona, dei nemici piú neri della democrazia, e che sono dentro fino al collo in tutti gli scandali e in tutte le trame reazionarie. È giusto che un paese che tollera senza batter ciglio quei visi ignori o rimuova da sé il volto nobile di Parri, troppo acerbo rimprovero alla sua frivolezza e alla sua colpevole tolleranza in un tetro periodo in cui la stessa sinistra è attraversata dalla destra e persegue disegni abominevoli e assurdi di alleanze e compromessi con i nemici capitali della democrazia e della classe proletaria. Perché Parri non è un rivoluzionario, a parole, ma è la faccia onesta, severa, profondamente alternativa di un paese per tanti aspetti e per tante parti disonesto e ignobile.

Con profonda amarezza Binni constata che nell’Italia attuale gli anni della cospirazione antifascista e della Resistenza, delle speranze dell’immediato dopoguerra, sono irreparabilmente dimenticati e resi incomprensibili da un dilagante revisionismo storico che riscrive il passato a uso di un presente affaristico, corrotto e corruttore, di cui è coerente espressione il craxismo; sono diventate incomprensibili e archeologiche le vicende del socialismo italiano, tanto che, nel 1983, Binni elimina dalle bozze della Tramontana a Porta Sole una sezione di scritti politici del 1944-45 pubblicati sul «Corriere di Perugia» e sul «Socialista» e un intervento del 1980 a proposito del «Corriere di Perugia»[173].

Nel novembre 1983, dopo una vita dedicata all’insegnamento universitario, viene collocato «fuori ruolo», fino all’ottobre 1988; nel febbraio 1989, a conclusione definitiva del suo percorso accademico, sarà nominato «professore emerito». Non mancano i riconoscimenti alla sua intensa e proficua attività di studioso e maestro di intere generazioni di italianisti, e lascia dietro di sé una folta scuola di allievi nelle Università di Genova, Firenze, Pisa, Roma. Il 4 maggio 1983, in occasione del suo settantesimo compleanno, il Comune di Perugia e la Regione Umbria hanno voluto dedicargli un incontro nel Palazzo dei Priori, con la partecipazione di Germano Marri, presidente della Giunta regionale, Raffaele Rossi, presidente dell’Istituto Storico per l’Umbria contemporanea, e tanti altri amici e compagni di generazioni diverse. Nel novembre 1983 riceve, molto gradita, la cittadinanza onoraria della città di Genova. Nel 1985 gli allievi e gli amici delle varie università gli dedicano un volume collettivo, Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni[174], che costituisce un contributo importante allo studio del suo metodo critico, aprendo nuove piste di ricerca.

Le sue condizioni di salute, aggravate da episodi di forte depressione con cui convive faticosamente da tanti anni, gli impongono periodi sempre piú lunghi di inattività, ai quali reagisce proseguendo il suo impegno con la «Rassegna della letteratura italiana» e con una ininterrotta riflessione su Leopardi, sulla profonda attualità dei suoi messaggi. Nel 1987 pubblica Lettura delle Operette Morali[175], riutilizzando materiali dei corsi romani del 1964-67, in particolare del corso del 1965-66, e della Nuova poetica leopardiana del 1947; nello stesso anno tiene conferenze in Umbria, a Terni, Perugia e Città di Castello su «La Ginestra» e l’ultimo Leopardi, in teatri affollati di insegnanti e studenti liceali[176]; nello stesso anno tiene a Napoli, ancora con una grande partecipazione di studenti e insegnanti, una lezione su Pensiero e poesia nell’ultimo Leopardi[177] in cui insiste ancora una volta sulla assoluta modernità e radicalità etico-poetica del “malpensante” Leopardi. Nel 1988 ne scrive ancora su «Cinema Nuovo», «Il messaggio della Ginestra» ai giovani del ventesimo secolo[178], un messaggio esplicitamente etico-politico «che è, sulla asserita, amarissima realtà della sorte degli uomini tutta e solo su questa terra, tanto piú l’invito urgente ad una lotta per una concorde e attiva prassi sociale, per una società comunitaria di tutti gli uomini, veramente libera, “eguale”, giusta ed aperta, veramente e interamente fraterna: lotta il cui successo non ha alcuna garanzia e che è tanto piú doverosa proprio nella sua ardua difficoltà».

Il messaggio leopardiano coinvolge talmente, per Binni, la sfera dell’etica e della politica che nel giugno dello stesso anno si dimette dal ruolo di presidente della commissione scientifica del Centro nazionale di studi leopardiani, di Recanati, polemizzando con il provincialismo e la direzione autocratica e dilettantistica del Centro da parte di un locale politico democristiano per di piú risultato iscritto alla P2 di Licio Gelli. Se ne va sbattendo la porta, con una lettera che non ammette repliche: «[…] Proprio anche per il mio legame personale con Giacomo Leopardi non voglio piú avere a che fare con Lei, con il “borgo selvaggio”, con la sua gente “zotica e vil” (escluso, si intende, il mio vecchio amico e compagno Magnarelli), con la stessa famiglia Leopardi giustamente discendente da Monaldo, da Carlo e da altri simili personaggi […]»[179]. Non è un’intemperanza; in questi suoi ultimi anni Binni è estremamente attento alla propria biografia: «in questi giorni – ha scritto in apertura della lettera – sto riesaminando i miei impegni e scartando decisamente quelli che non mi convincono in parte o in tutto e che comportano qualche piccola o grave menomazione di una vita condotta paradossalmente all’insegna della lealtà, della schiettezza, della dignità piú intransigente. In tali impegni c’è anche la mia “presidenza” della commissione scientifica del Centro nazionale di studi leopardiani da Lei diretto, da cui intendo dimettermi come anche dalla mia stessa qualità di membro della commissione». Il letterato-antiletterato ha colpito ancora una volta, naturalmente suscitando malumori e riserve in un ambiente accademico che ha altre priorità e consuetudini.

La caduta del muro di Berlino e l’autoscioglimento del Pci, mentre esplode il «caso Gladio» portando alla luce un nuovo tassello delle strategie atlantiche contro la democrazia italiana, e inizia la prima guerra del Golfo con la partecipazione dell’Italia, vede una nuova fase dell’impegno politico di Binni. Il 22 gennaio 1990 aderisce e partecipa a un incontro, al Piccolo Eliseo di Roma, organizzato dalla mozione «Per un vero rinnovamento del Pci e della sinistra» che si oppone allo scioglimento del partito, nella prospettiva di una rifondazione politica e culturale del Pci. All’incontro hanno aderito 113 intellettuali di uno schieramento ampio, da Cesare Luporini a Luciano Canfora, da Luigi Pintor a Paolo Volponi, da Binni a Natalia Ginzburg, da Carlo Muscetta ad Alberto Asor Rosa, da Dario Fo a Pietro Barcellona. Intervistato da «l’Unità», Binni dichiara la propria posizione:

[…] Da molto tempo, dopo un passato travagliato che mi portò all’uscita dal Psi nel 1969, mi sento vicino alle posizioni del Manifesto e di Ingrao in particolare […]. Oggi, poi, sento questa affinità ancora piú forte, dopo la scossa di Occhetto che, con il nome, mi pare tenda a liquidare quell’idea di liberalsocialismo alla quale mi sono sempre ispirato. E si tratta di un’idea che circolava finanche negli anni bui dello stalinismo: io e molti altri, pur conoscendo e deprecando le purghe e le altre barbarie dell’Unione Sovietica di Stalin, non potevamo evitare di guardare con molto interesse a quella grande socializzazione della cosa pubblica intorno alla quale ruotava, per esempio, la Costituzione sovietica. Oggi come oggi, poi, ci sono altri motivi, piú contingenti, a spingermi in questa direzione: rilanciare l’importanza dei bisogni collettivi credo sia l’unica cosa da fare per fronteggiare lo strapotere montante del privatismo, dell’arrivismo, dell’egoismo. […] Mantenere aperto l’orizzonte del comunismo, come dice Ingrao, significa lottare sempre di piú e sempre meglio contro le spinte antidemocratiche mostrate dalle società occidentali in questi anni. Spinte, aggiungo, che in futuro promettono di acquistare forza, non di perderne[180].

Due giorni dopo muore Giorgio Caproni; il suo funerale, disertato dalle “autorità” ma anche dagli intellettuali, è un amaro segno dei tempi. Ne rende conto un articolo non firmato su «l’Unità»:

I poeti, si sa, non amano i “potenti”, e questi ultimi li ripagano della stessa moneta. Ieri a Roma, ai funerali di Giorgio Caproni, uno fra i piú grandi poeti italiani, non era presente neppure il piú modesto fra i rappresentanti del governo e dell’Italia per cosí dire “ufficiale”. Caproni non se ne sarebbe avuto a male: schivo e solitario in vita, anche in morte è rimasto coerente al suo stile scabro e austero. Ma l’assenza totale di “potenti”, solleciti invece ad ogni benché minima apparizione spettacolare, è in sé medesima assai eloquente. Nella chiesa di Santa Maria Madre della Provvidenza, a Roma, dove Caproni abitava da moltissimi anni, accanto ai figli Silvana e Mauro c’era solo un gruppo di amici, estimatori, ex scolari del maestro elementare, quale il poeta era restato fino a tutti gli anni Cinquanta. Tra gli altri Walter Binni, Guglielmo Petroni, i poeti Elio Filippo Accrocca, Rossana Ombres, Biancamaria Frabotta, Valerio Magrelli. […] L’assenza di esponenti ufficiali del governo e delle istituzioni è stata duramente stigmatizzata sia da Petroni, presidente del sindacato scrittori («Se la cultura non fa anche spettacolo viene emarginata»), sia dal professor Walter Binni. Quest’ultimo ha commentato che «il fatto non è certo unico ma clamorosissimo» ed «è solo una conferma che chi lavora seriamente per l’arte e la cultura viene escluso dal cerchio»[181].

Lo stesso giorno, sul terzo canale televisivo della Rai, Andrea Barbato dedica una delle sue «cartoline» all’episodio:

Eppure, l’assenza di tutti è scandalosa. Dovrebbe far riflettere sul groviglio, sulla confusione di valori che abbiamo creato intorno a noi. Se non c’è spettacolo, ha detto Binni, si viene emarginati. La cultura seria non ha diritto di cittadinanza, non ha nemmeno onoranze funebri. Non si sa riconoscere neppure dopo la morte chi ha veramente onorato la sua terra. […] Chissà se un giorno vivremo in una società che non si vergogni dei suoi rari poeti[182].

L’orgia “postmoderna” della società dello spettacolo è già all’opera, e chi se ne rende conto non può che prenderne atto, con amara lucidità; il veleno si diffonde allegramente, in una società in cui dilagano l’incultura arrogante della zona grigia e le “picconate” eversive, occulte e visibili, del potere politico del Caf (Craxi, Andreotti, Forlani) e delle sue clientele corrotte. La “questione morale” denunciata da Berlinguer alla vigilia della sua morte è considerata moralismo, ossessione di anime belle, poeti. La mafia continua ad ammazzare e si mette in affari, e Berlusconi diventa presidente della Mondadori. Nel gennaio 1990 il movimento studentesco della “pantera” ha respiro corto, e rifluisce rapidamente. L’area del Pci è dilaniata da un dibattito interno confuso, tra autopunizione e fascino del liberismo. La confusione regna anche nella nuova sinistra, impegnata in fragili tentativi di affermazione parlamentare (negli anni ottanta Binni ha votato per Democrazia proletaria e a volte per il Pci) e di presenza testimoniale, mentre la stagione della lotta armata si è sostanzialmente conclusa lasciando nelle carceri o all’estero centinaia di militanti.

16. Il pensiero dominante

Nell’estate del 1990 Binni è colpito da un edema polmonare che rischia di ucciderlo. Le sue condizioni di salute da questo momento gli imporranno un regime di vita fortemente limitato dai postumi della malattia, che gli renderanno insopportabile la vecchiaia ma non gli impediranno di dedicarsi al suo lavoro di studioso e al suo impegno politico di intellettuale della sinistra. Il pensiero dominante della morte lo porta a una continua riprogrammazione dei suoi impegni, l’incalzare degli avvenimenti (nel 1991 il coinvolgimento dell’Italia nella guerra del Golfo, la costituzione di Rifondazione comunista, nel 1992 esplode “tangentopoli”, sono assassinati Falcone e Borsellino, si dimette Cossiga dalla Presidenza della Repubblica e viene eletto Scalfaro, nel 1993 le dimissioni di Craxi da segretario del Psi, le bombe mafiose di Firenze e Roma) lo vede testimone impotente, ma non cessa di prendere posizione, tenacemente fedele alla propria coerenza. Nel gennaio 1991 è tra i primi firmatari di un appello di 200 intellettuali italiani, promosso da Ernesto Balducci e Walter Peruzzi, Contro la guerra del Golfo, contro la partecipazione dell’Italia in nome dell’articolo 11 della Costituzione, e per una giusta soluzione della questione palestinese; e scrive all’amico Norberto Bobbio, che ha parlato di «guerra giusta», una lettera di aperto dissenso, che poi non spedirà[183]:

Caro Bobbio, ho seguito con interesse e altrettanto “dissenso” le tue prese di posizione sulla guerra “giusta”, “necessaria” e infine sui dubbi che ti hanno in proposito tormentato. Io sono fra quelli che l’elegante eloquio del primo cittadino della Repubblica (Cossiga, n.d.r.) ha designato come “traditori della patria” e “figli di puttana” e che a proposito della “patria” attualmente propende per l’icastico giudizio secondo cui il patriottismo è “l’ultimo rifugio delle canaglie”. Alle quali ritengo che appartenga a pieno titolo il sullodato presidente e il duce della falange socialista (Craxi, n.d.r.). Penso che i tuoi dubbi, carissimo, si siano cambiati in amare certezze specie in questa drammatica situazione che prepara, a mio avviso, tempi terribili in cui libertà e democrazia saranno addirittura cancellate: la paura preventiva del nuovo fascismo è già visibile nel precipitoso e voluttuoso “ruere in servitium” presente in quasi tutta la stampa e persino nell’estrema cautela con cui i malpensanti si parlano su temi politici nelle conversazioni telefoniche. Io sono piú vecchio della mia età e da tempo emarginato e privo di udienza giornalistica e al massimo posso firmare qualche appello come ho fatto contro la guerra e contro Cossiga. Ma tu hai ben altre possibilità pubbliche: poiché penso proprio che tu non possa non condividere le preoccupazioni di quanti vedono in gran pericolo le sorti della libertà e della democrazia nel nostro paese. Tu dovresti a ciò destinare alcuni dei tuoi interventi sui giornali, che saranno lezioni utili e incoraggianti per molti intellettuali. A Perugia mi dissero che ti avrebbero interpellato per proporti di far parte – insieme a me e a Luporini – di un comitato d’onore (e di garanti) per una edizione delle opere di Capitini[184]. Io ho accettato, ma certo sarei ben lieto di essere in compagnia tua e di Luporini. Che cosa hai deciso in proposito? Come va la tua salute? Io sto uscendo (o cosí spero) da un lungo periodo di malattia dopo un ricovero, nella scorsa estate, in un ospedale del Casentino per un grave attacco di edema polmonare. A Roma non vieni mai (anche per il Senato)? Se sí ti sarei grato di una telefonata: verrei a salutari con grande piacere e a parlare di ciò che ci interessa e ci angustia, fra l’altro l’incredibile degrado del partito di cui io sono stato militante fino al 1968 quando tacitamente ne uscii: ringrazio il cielo (si fa per dire) di non aver dovuto assistere alla irresistibile ascesa del nuovo Arturo Ui in stivaloni e speroni, e del suo coro di lupi e di oche.

Del 23 marzo 1991 è un’altra lettera, a Luigi Pintor[185], significativa dello stato d’animo di Binni in questo periodo:

Caro Pintor, ti scrivo per esprimerti la mia ammirazione per il pezzo sul “basso colle” (ancora Cossiga, n.d.r.): a mio avviso degno di essere antologizzato (come altri tuoi articoli, ma questo in maniera particolare) in un volume di prose civili insieme a pezzi di Luigi Russo, di Ernesto Rossi, di Calamandrei ecc. ecc. (e magari insieme a disegni di Grosz!). Parlo come vecchio “pessimista rivoluzionario” e come critico letterario: il tuo articolo meriterebbe un’analisi ideologica e stilistica assai impegnativa, dal suo inizio inatteso, ex abrupto, alla sequenza trascinante “noi… noi” sino alla conclusione folgorante e inattesa sulla craxiana repubblica presidenziale. Temo che si preparino tempi duri con un nuovo e precipitoso “ruere in servitium” anche degli intellettuali arroccati nella loro “professionalità”. Tu continua a far esplodere il tuo sacrosanto sdegno («sdegnatevi e non peccherete» secondo un passo biblico) esprimendolo in forme sarcastiche cosí originali! Un saluto cordiale da un vecchio amico di Giaime[186] e di tutti i “malpensanti” (da Leopardi in poi).

In questi stessi giorni esce nelle sale cinematografiche Il portaborse di Daniele Luchetti, efficacissima denuncia dei prodromi craxiani del Caimano di Nanni Moretti; in uno degli episodi di reazione etica del “portaborse” alla cloaca socialista di sopraffazioni e ruberie, Silvio Orlando, fuggito tra i propri studenti per riuscire a respirare, parla di Leopardi: «Leopardi pessimista? Ma non è vero affatto! Lui aveva l’ottimismo di credere nella forza purificatrice dell’atto poetico. E poi, come scrive il Binni, se non fosse morto nel ’37 ce lo saremmo trovato nel ’48 sulle barricate!». Binni questo non l’ha scritto, ma il senso dell’indignazione leopardiana contro il cinismo e l’arroganza del potere è certamente un tema sul quale Binni insiste da sempre.

Il portaborse di Luchetti getta una luce inquietante sul presente e sul futuro imminente. Il 1992 è l’anno di “tangentopoli”, che travolge la Dc e il Psi sconvolgendo l’intero sistema politico. A Nord avanza nei ceti popolari l’antipolitica populista e razzista della Lega, che alcuni settori del Pds considerano nata da una costola dell’ex Pci. La rivolta contro le ruberie e il malaffare della classe dirigente assediata è caotica, e tra le forze del “rinnovamento” agiscono indisturbati i centri di potere della destra piduista alleata ai fascisti del Msi e alla mafia. Nel novembre 1993 Berlusconi, presidente della Fininvest e del Milan, in posizione dominante nei media, «scende in campo» a fianco del Msi di Fini per liberare il paese dai “comunisti” e attuare il programma di “rinascita nazionale” della P2; è un blocco di potere che si rivolge direttamente, con tutti i mezzi, alla pancia della “zona grigia”, a quel “popolo” che ha una lunga tradizione di consenso e servilismo nei confronti dei potenti di turno. La sinistra reagisce come può, in posizione di difesa, divisa e frastornata, spesso ammutolita. L’uovo del serpente, covato dal craxismo, si sta dischiudendo.

Sono queste le cose che vede e pensa Binni, stanco e amareggiato. Nei primi mesi del 1992 lascia per ragioni salute la direzione della «Rassegna della letteratura italiana»[187], che affida a un comitato di direzione composto da ex allievi delle Università di Genova, Firenze e Roma: Franco Croce, Giovanni Ponte, Enrico Ghidetti (coordinatore), Giorgio Luti, Giulio Ferroni, Gennaro Savarese. Nella primavera del 1993 pubblica Poetica, critica e storia letteraria, e altri saggi di metodologia[188], in cui ha raccolto i testi teorici fondamentali del suo metodo storico-critico; il 12 maggio, in occasione di una giornata in onore dei suoi ottanta anni, tiene la sua ultima lezione alla Sapienza di Roma, nell’aula I della Facoltà di Lettere gremita di studenti e docenti, allievi e colleghi: è una Lezione sulla «Ginestra»[189], in cui Binni ancora una volta scava la complessità e la profonda modernità, ideologica e stilistica, di un pensiero-poesia aggressivo e materialistico che ha raggiunto, attraverso «la Palinodia, I nuovi credenti e soprattutto i Paralipomeni della Batracomiomachia, che sono una delle opere piú grandi che Leopardi ha scritto e una delle opere piú fermentanti, veramente ribollenti di pensiero anche persino prepolitico e politico», la sua dura e scabra essenzialità di colata lavica, in continuo dinamico movimento.

Naturalmente senza pretendere, l’ho già detto, che si debba aderire alle posizioni ideologiche di Leopardi, che certamente hanno sfondato in un certo senso per molti aspetti il proprio tempo e hanno potuto parlare anche a molti “giovani del secolo ventesimo”. Ma comunque, chiunque comprenda correttamente queste direzioni di pensiero e queste direzioni di poetica, non può uscire dalla lettura della Ginestra, dalla lettura intera di questa grande poesia, senza esserne profondamente coinvolto, magari turbato e senza provare quello che il grande Leopardi in un pensiero del ’23 dello Zibaldone diceva essere l’effetto della vera poesia (badate bene, Leopardi non discettava tanto su cosa è poesia, ma cercava gli effetti della poesia). Cosí, dice Leopardi, la grande vera poesia «dee sommamente muovere e agitare», cioè sempre sommuovere, commuovere, essere una spinta profonda che coinvolge tutto l’essere e deve provocare «una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni […] e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma», che è l’opposto di quello che comunemente si suole e si soleva intendere col termine di poesia.

Con quest’ultima lezione leopardiana Binni consegna agli allievi, a loro volta divenuti “maestri”, il mandato di proseguire l’impegno critico, tanto piú impegnativo in tempi di profonda trasformazione del ruolo della critica letteraria; come scrive Giulio Ferroni in un articolo su «l’Unità» nello stesso giorno dell’intervento alla Sapienza:

[…] Dopo tanti apparenti successi, abbiamo visto insterilirsi e vanificarsi il formalismo tecnicistico, abbiamo visto gran parte della semiotica ridursi a formulario scolastico, abbiamo visto affogare nel non senso la burbera iattanza di certi presunti usi “politici” della letteratura, abbiamo visto naufragare nel piú vacuo compiacimento di sé certe distruttive forme di nichilismo narcisistico: molte formule che pretendevano di fornire spiegazioni “scientifiche” semplificatrici e rassicuranti dei fatti letterari, molte inani critiche della “poesia” e dei “ruoli” degli intellettuali, hanno finito per collaborare alla riduzione della letteratura ai margini della comunicazione corrente, al trionfo di una cultura esteriore, spettacolare, narcisistica, pubblicitaria, sempre piú indifferente alla coscienza critica, sempre piú incapace di mantenere il senso della “memoria”, di trovare un nesso vitale tra ragione e passione. Oggi abbiamo bisogno della lucida, appassionata, tesa e anche disperata lezione che Binni ci ha dato, nella sua nozione della letteratura e della poesia come partecipazione globale al mondo, risposta ad esso, intervento nel suo significato, ipotesi di civiltà razionale e cosciente. Ne abbiamo bisogno sul piano del metodo, ricordando che ai testi e alle opere si deve giungere da diversi punti di vista, proprio perché occorre tener conto della molteplicità di esperienze e di tensioni che in esse convergono, ma che è comunque essenziale arrivare a sentire il loro significato globale, la parola sul mondo che essi ci propongono […].

E pochi giorni dopo, il 23 maggio, all’Università di Genova, un incontro all’Istituto di letteratura italiana, un «omaggio a Walter Binni» con la partecipazione di Franco Croce, Giovanni Ponte, Quinto Marini, Stefano Verdino, Gennaro Savarese, insiste sull’attualità del metodo storico-critico di Binni negli studi letterari in corso, nelle piste di ricerca a venire.

Nel 1994 Binni, su sollecitazione dell’amico leopardista Sebastiano Timpanaro, nel volume Lezioni leopardiane[190], a cura di Novella Bellucci, con la collaborazione di Marco Dondero, pubblicherà i testi delle dispense dei corsi universitari degli anni 1964-67, «tanto piú analitiche, ricche di interpretazioni di singoli testi – scriverà nella premessa – che non la Protesta di Leopardi (Sansoni, 1973), in cui avevo ripreso – dopo una loro prima utilizzazione nell’introduzione a Tutte le opere del Leopardi (Sansoni, 1969) – il succo delle loro analisi piú ampie e dettagliate». Nel 1995 raccoglierà gli Studi alfieriani[191] dal 1942 al 1980, in due volumi a cura di Marco Dondero. Nel 1996 in Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, e altri studi ariosteschi[192], a cura di Rosanna Alhaique Pettinelli, raccoglierà gli studi ariosteschi dal 1947 al 1978.

In questi ultimi anni della sua vita, è come se Binni volesse mettere ordine sulla sua scrivania; mantiene aperti due soli progetti: una monografia leopardiana accompagnata da una scelta antologica d’autore, per la quale ha un contratto con gli Editori Riuniti[193], e un volume in cui raccogliere gli scritti novecenteschi[194]. Considera sostanzialmente concluso il proprio percorso di critico e storico della letteratura, e le condizioni di salute sempre piú precarie lo dissuadono da illusorie speranze di ripresa. Ma non considera affatto conclusa la sua storia politica.

Nel dicembre 1993 partecipa, da invitato, al II Congresso di Rifondazione comunista, a Roma; nell’occasione conosce Fausto Bertinotti, di formazione lombardiana e ingraiano, in cui riconosce una comune tensione intellettuale e politica, e la cui elezione a segretario del Prc nel gennaio 1994 gli sembra garantire una possibile “rifondazione” di una prospettiva comunista e una possibile inversione di tendenza nella crisi della sinistra italiana. Nel marzo 1994, alla vigilia di elezioni politiche che si preannunciano decisive, è tra i firmatari di un appello al voto per la coalizione dei progressisti e, nella lista proporzionale, per il Prc. In piena campagna elettorale contro la coalizione della destra di Berlusconi, Bossi e Fini, il 16 marzo scrive a Bertinotti chiedendo l’iscrizione al Prc:

Caro Bertinotti, ho sempre votato per Rifondazione comunista dopo la “liquidazione” del Pci: ora desidero confermare la mia posizione ideologico-politica chiedendo l’iscrizione al partito di cui tu sei il combattivo e intelligente segretario. Quando nel 1968 lasciai definitivamente il Partito socialista in cui ero entrato nel 1943 (dopo l’attività cospirativa sotto il fascismo nel movimento liberalsocialista, che abbandonai allorché si trasformò nel Partito d’azione) e in cui fui deputato all’Assemblea costituente per la circoscrizione di Perugia-Terni e Rieti, mi ero proposto di non prender piú nessuna tessera considerandomi un “leopardiano pessimista-rivoluzionario”, un intellettuale disorganico a ogni partito, ma volontariamente organico alla classe proletaria, alla quale pur da un punto di vista socio-economico non appartengo. Ma ora che il nostro paese è minacciato dalla vittoria di una destra ultrareazionaria e assolutamente antidemocratica, sento il bisogno di impegnare il mio nome e le mie residue energie (sono del 1913!) in una comunità di “compagni” sostanzialmente orientata nella prospettiva che mi sostiene ancora, com’è stato per tutta la mia lunga vita […].

La lettera viene pubblicata su «Liberazione»[195] il 25 marzo; nello stesso numero del giornale Binni è tra i firmatari dell’appello Vota comunista Vota progressista, e alla sua iscrizione al Prc dedica un articolo Raul Mordenti, italianista e già leader del movimento studentesco romano nel Sessantotto:

L’adesione a Rifondazione comunista di Walter Binni […] rappresenta un motivo di incoraggiamento e di entusiasmo non solo per gli intellettuali, non solo per le generazioni di studenti (e, ormai, di professori) che hanno avuto in Binni il loro maestro, ma, piú in generale, per tutti i comunisti, per i lavoratori, per le donne e gli uomini semplici che sono la parte maggiore e migliore del nostro partito. Si rivolge infatti anzitutto a costoro la sua decisione di stare con noi e fra noi, spinto da quella moralità laica che lo accomuna a un altro grande perugino, il suo amico Aldo Capitini; è una moralità del tutto diversa, ed anzi incompatibile, rispetto al connivente moralismo controriformato della nazione italiana (e forse proprio per questo Binni e Capitini sono figure cosí isolate nella cultura politica italiana). Nel momento in cui si vede di nuovo affiorare dal fondo torbido della società italiana il fango antico dell’egoismo sociale, del conformismo, del razzismo, insomma di un nuovo fascismo massmediatico (berlusconiano), Walter Binni si pone di nuovo controcorrente, ascoltando soltanto la voce della sua limpida e dura coscienza democratica. […] Binni non si iscrive a Rifondazione comunista in un momento qualsiasi, ma proprio ora; intendo dire: proprio nel momento di massima solitudine dei lavoratori e degli studenti, proprio quando la classe operaia e le sue lotte e il suo bisogno di comunismo sono oggetto del presupponente disprezzo di tanti piccoli e piccolissimi intellettuali pentiti, i degni nipotini (somiglianti piú che mai!) dei nipoti di padre Antonio Bresciani. Proprio in un simile momento, Binni afferma con questa sua scelta, anzitutto il rifiuto della separazione fra alta cultura e lotta delle masse, critica la boria classista e corporativa degli specialismi professorali. Insomma riafferma (in quel modo concreto e solitario che è del suo carattere) la responsabilità civile degli intellettuali, quel dovere di opporsi che è segno e privilegio della cultura. Per tutti noi Walter Binni è il grande critico e storico della letteratura italiana, noto in tutto il mondo, lo studioso che ci ha permesso di capire ed amare, quasi fossero letti per la prima volta, Ariosto e Michelangelo, Alfieri e (primo fra tutti) Giacomo Leopardi; ed è anche il teorico a cui si deve (grazie al vitale concetto di “poetica”) la piú duratura “uscita” a sinistra dall’egemonia classista di Benedetto Croce (non in direzione del sociologismo contenutistico o del formalismo tecnicistico, ma della storia, e della storia intera). Per noi comunisti, Walter Binni è tutto questo, ma è anche e soprattutto l’intellettuale politico intransigente, schierato da una parte sola, l’uomo che nel 1966, parlando agli studenti dell’Università di Roma, per la morte di un ragazzo ucciso a pugni dai fascisti, seppe insegnarci il dovere dell’impegno civile e cambiare in modo duraturo la vita di molti di noi […].

Il giorno dopo, il 26 marzo, esce sul supplemento letterario di «La Stampa», «Tuttolibri», una lunga intervista di Giorgio Calcagno[196], già allievo di Binni a Genova, in occasione della pubblicazione di Poetica, critica e storia letteraria, e altri saggi di metodologia. È un’intervista importante, che mette a fuoco il profondo intreccio tra critica, etica e politica nella poetica personale di Binni:

«Io che ho visto un’altra Italia», dice Walter Binni, a riassumere in sette parole la sua tristezza di oggi. Ma, insieme, «io vecchio pessimista leopardiano che non si arrende» aggiunge, per dichiarare, in altre sette parole, la sua volontà di sempre. Il grande studioso di letteratura, uno fra gli ultimi maestri del nostro Novecento, ha compiuto da poco gli 80 anni e ha raccolto, in un libro, i saggi che compendiano il suo metodo critico […] la summa di un pensiero che ci ha insegnato a leggere in modo nuovo il testo letterario, collegando sempre il valore della poesia a quello della storia e della realtà, attraverso il filtro, per Binni decisivo, della “poetica”. Nella sua casa romana vive circondato da 35 mila libri, testimoni di un lavoro cominciato a metà degli anni trenta e in corso ancora oggi. Ma non ci sono solo gli studi, nella vita del professore perugino. La critica è un punto d’arrivo, di una esistenza che si è spesa subito in prima linea, nei movimenti antifascisti clandestini, poi nella lotta politica del primo dopoguerra, come deputato alla Costituente per il partito socialista. E lo studioso di Foscolo e di Leopardi non può non riandare, con la memoria, all’Italia di allora, la sua, cosí diversa dalla attuale.

«Forse nel nostro paese è vissuta sempre una doppia Italia. Ce n’è stata una nobile, minoritaria. E poi ce n’è una cinica, conformista, arrampicatrice, rotta a ogni corruzione. Solo in rari momenti della storia, quelli che vengono chiamati lune di miele dei popoli, è emersa la prima». E lui ha avuto la fortuna di vivere uno di quei momenti. Per questo è piú duro il suo giudizio oggi. «Alla Costituente c’erano persone con grandi differenze di idee, ma di quale altezza. Erano Parri, Terracini, Calamandrei, cattolici come Dossetti (ricordo lui per tutti). Se ripenso alla situazione di allora e al risultato che ne conseguí, confesso che mi viene una grande amarezza. Non si tratta solo di idee – che pure hanno la loro importanza – ma di costume morale, di apertura, di comprensione per tutto quello che ora ci viene mancando».

Lui, da giovane ufficiale, era stato uno fra i piú efficienti corrieri della cospirazione. Aveva aderito al liberalsocialismo di Capitini, aveva tenuto comizi in tutta l’Umbria per conquistarsi un seggio nella prima assemblea repubblicana. Oggi vede un paese «sopraffatto da associazioni segrete, mafia, intrecci con la politica; soprattutto da un’ondata di liberismo selvaggio, contrastante con tutto quello che ha animato la migliore Italia: lo spirito di solidarietà, l’avanzamento dei valori umani». Confessa, lealmente: «Ci eravamo illusi».

E che cosa può fare, in questa situazione, lo studioso di letteratura?

«Di fronte a queste cose è molto importante continuare la nostra attività di scrittori e di critici. Certo, il nostro intervento è di valore condizionato. Ma io sono con Leopardi, il mio poeta e il mio maestro. L’ho sempre concepito come un pessimista ribelle, resistente a una realtà imposta. E io mi definisco un pessimista rivoluzionario, che vorrebbe trasformare questa realtà».

Walter Binni è pessimista rivoluzionario da 60 anni. Il suo primo libro, sul decadentismo, è del 1936, e oggi sta ancora lavorando sui suoi autori, fra Sette e Ottocento. Quanta politica, quanta vita ha travasato nel suo lavoro di critico?

«Ho portato nella critica tutti i fermenti della mia vita, non le ho separate mai. Credo di aver capito molti poeti, da Ariosto a Montale, rivivendoli, attraverso la mia esperienza. Se ho avvicinato tanto Leopardi è perché lo sentivo personalmente. I temi supremi della vita e della scomparsa degli esseri cari, della caducità, della transitorietà, io li avevo vissuti nella mia adolescenza: e l’incontro con Leopardi me li ha chiariti. […]».

Il 27-28 marzo 1994 si svolgono le elezioni politiche: vince la coalizione di destra, spaccando il Paese a metà. La celebrazione del 25 aprile a Milano è la prima occasione per una reazione di massa al governo piduista, fascista e leghista. Binni invia la sua adesione pubblica: «Come vecchio combattente antifascista, come intellettuale di sinistra, come deputato all’Assemblea costituente, aderisco alla manifestazione del 25 aprile nel ricordo riconoscente di tanti antifascisti caduti nella Resistenza per liberare l’Italia dalla dittatura e per l’affermazione della democrazia»[197]. Quanto sta accadendo è per Binni l’amara constatazione di un processo prevedibile e ampiamente previsto, e grandi sono le responsabilità della sinistra; alle elezioni europee del 12 giugno (Binni ha aderito a un appello di intellettuali per il voto a Rc[198]) la spaccatura politica del paese si riflette in una spaccatura geografica: vince la destra al Nord e al Sud, la sinistra resiste al Centro. Il 20 giugno, nel cinquantesimo anniversario della Liberazione di Perugia, Binni è nella sua città, dove l’amministrazione comunale lo iscrive nell’Albo d’oro come riconoscimento del suo lungo impegno intellettuale e politico; nelle parole che pronuncia, nella sala dei Notari[199], c’è la stanchezza e l’amarezza di chi si sente un sopravvissuto, sopraffatto dai ricordi personali, dalle ombre degli amici e dei compagni scomparsi, dalla lontananza irrimediabile da anni di speranza e vitalità «in questa occasione che può essere anche, per la mia età, piuttosto conclusiva nei confronti di questa città [con cui] ho sempre sentito un rapporto fortissimo […] una specie di congenialità tra il mio temperamento e le forme che io prediligo nella mia immagine di Perugia […] un elemento che caricava la mia tensione, che corrispondeva alla mia irrequietezza, agli aspetti piú caratteristici dello stesso mio stile, modo di far critica, di far vivere la poesia, forza autentica […]».

È un addio consapevole e doloroso alla sua città, che non rivedrà piú. Un mese prima, il 20 maggio, ha salutato per l’ultima volta Genova, in occasione del centenario della «Rassegna della letteratura italiana» fondata da D’Ancona; in un’intervista di Francesco De Nicola[200] ha rievocato quegli anni di intensa e vitale attività, ormai lontani nella prospettiva deformante della vecchiaia, come dice stupito nella conclusione dell’incontro dedicato alla rivista:

[…] è strano che piú della giovinezza sia particolarmente luminosa l’immagine della giovinezza che acquistiamo man mano che invecchiamo. Anche Bobbio parlava, in una recente lezione sulla vecchiaia all’Università di Sassari, di questo accentuato bisogno di autoidentificazione con la vecchiaia, con cui uno cerca di stringere per quanto può l’immagine che a lui stesso è lui stesso. L’altra cosa che lui accennava è il tentativo quasi di prolungamento di una fase cosí breve e minacciata continuamente con il ricorso al passato. E questo è un modo di accrescere il passato stesso di una luce certamente molto maggiore di quella che risplendeva negli anni giovanili. Anche lui parlava di questo bisogno di autoidentificazione e del prolungamento con il quale insieme, per ridurre gli aspetti dell’egocentrismo, si prolunga la vita di quelli che non ci sono piú e che sono stati i nostri amici, i nostri compagni […][201].

La riflessione sulla morte, il “pensiero dominante” che ha accompagnato Binni fin dall’adolescenza, incontrandosi poi con la “compresenza” di Capitini, diventa spesso in questi ultimi anni il filtro necessario con cui osservare la realtà, con disillusa curiosità e dolente stupore.

Nel corso del 1994, mentre i processi di «Mani pulite» liquidano definitivamente il Psi e la Dc, la mobilitazione sindacale contro il primo governo Berlusconi (alle manifestazioni dello sciopero generale del 14 ottobre contro la finanziaria e la “riforma” delle pensioni, in tutta Italia, partecipano 3-4 milioni di persone; la manifestazione nazionale a Roma per le pensioni, il 12 novembre, porta in piazza 2 milioni di partecipanti) e i conflitti di potere all’interno della coalizione, tra il populismo della Lega e il decisionismo padronale di Berlusconi, indagato per corruzione della Guardia di Finanza il 22 novembre, determinano la caduta del governo il 22 dicembre.

Binni, che a ottobre ha aderito a un appello di intellettuali promosso da Bobbio e altri in sostegno dello sciopero generale del 14 ottobre[202], non si fa illusioni sul futuro della situazione italiana. La risposta di Bobbio, il 31 ottobre, a una sua lettera è indicativa delle considerazioni che ha scambiato con il vecchio amico:

Caro Binni, sono tornati, ne sono convinto anch’io, e saranno applauditi. Non so se hai letto su «Il Secolo d’Italia» un articolo contro gli «inverecondi ruderi che ammorbano il bel pensiero dell’italica saggezza», «i gerontocrati che sputacchiano sentenze», e poi una frase volgare che non scrivo per non sporcarmi. Li abbiamo lasciati crescere, anche per i nostri errori, per la nostra impotenza di fronte al malgoverno di ieri. Anni tristi, questi ultimi, anche per me, gli ultimi. Diceva Croce: «continuare a fare il proprio lavoro, come se vivessimo in un paese civile». Come se… Ma è difficile, almeno per me. Il corso della vecchiaia è sempre piú rapido […][203].

Un’altra lettera dello stesso periodo, dell’amico Mario Rigoni Stern, in risposta a una lettera di Binni di cui è facile intuire il contenuto, porta i segni di uno sconforto irrimediabile:

Caro Walter, sí, quel caffè dove nell’estate del ’73 lavoravi al tuo libro sul Foscolo c’è ancora, e ancora quel tavolo, quelle sedie. Quando qualche volta entro lí, guardo quell’angolo come per ritrovarti con quelle carte davanti e la tua penna in mano. Uscivo dall’ufficio del catasto per andare alla posta e passavo a salutarti, qualche volta tu mi accompagnavi. Piú di vent’anni fa! Ma certo non pensavamo – almeno noi – di ritrovarci in questa patria cosí disgraziata e mortificata da “rappresentanti di commercio” dai quali non si comprerebbe nemmeno un paio di stringhe (e che si ritengono “unti del Signore”). E ora siamo stanchi, e anche leggere ci affatica, e le passeggiate diventano sempre piú brevi. Un saluto affettuoso, caro Walter, sei stato maestro di tanti, il tuo lavoro è stato generoso nell’aprire gli occhi a tanti giovani e ancora lo sarà[204].

Nel 1995 con il governo Dini si apre una breve stagione di italico trasformismo e politicismo che sembra frenare l’ondata di destra, e nelle elezioni regionali di aprile l’affermazione del centrosinistra in quasi tutte le regioni indica una forte volontà di inversione di tendenza nell’elettorato, mentre nel governo “tecnico” nazionale, di cui fanno parte il centrosinistra e la Lega, ma non Rc, si affermano posizioni moderate di logoramento della forza potenziale della sinistra. A dicembre Prodi presenta il programma dell’Ulivo, che vincerà le elezioni politiche dell’aprile 1996, con un patto di desistenza tra Ulivo e Rc.

Nel marzo 1995, in occasione della presentazione a Roma, nell’aula I della Facoltà di Lettere, delle Lezioni leopardiane[205], Binni viene intervistato da Maria Serena Palieri per «l’Unità»[206]. L’intervista mette a punto la posizione critica del Binni leopardista, anche rispetto a certe letture heideggeriane in voga, ma non mancano i riferimenti alla piú generale situazione culturale e politica del momento.

[…] Da Leopardi a Montale corre il filo di una cultura radicalmente laica. È un atteggiamento verso la vita che in Italia sembra sempre minoritario. È colpa solo del cattolicesimo o anche dei miti e delle illusioni della sinistra?

Guardi, io sono stato e sono un uomo di sinistra, anche se in posizione critica. Certo Leopardi è un appoggio fortissimo per questo che lei dice. Ma il suo laicismo è fortemente democratico, non paternalistico. E con una carica morale che in Italia non ha avuto molte repliche: si comincia con Dante, poi Mazzini a modo suo, De Sanctis, Gramsci, e fra gli uomini che ho conosciuto io Parri, potrei dire… Il nostro paese ha avuto la sventura di vivere sempre un forte distacco da queste cime. Il laicismo comunque viene inteso, forse in chiave massonica, come tolleranza. Invece l’intransigenza è per me un fatto fondamentale.

Parlava, però, di un distacco del paese «da queste cime».

Qui bisogna distinguere. C’è, per dirla con Dante, un’«umile Italia», quella che piaceva anche a Leopardi. Ci sono persone sane. Questo tipo di persone c’è tuttora, anche se indubbiamente in questi ultimi tempi col consumismo c’è stato un appiattimento, un imborghesimento. Ma poi c’è una specie di marmaglia che ha l’assoluto disprezzo del bene comune, dei deboli, degli emarginati, dei diversi: i gay, per esempio, ma a me interessano di piú gli extracomunitari. È una marmaglia che è riemersa con forza, come un averno che affiora sulla terra, per dirla con Leopardi […].

Il 1996 è l’anno della vittoria dell’Ulivo alle elezioni politiche del 21 aprile, con la “desistenza” di Rc e il suo successivo appoggio esterno al governo di centrosinistra. Il paese è di nuovo spaccato a metà, mentre al Nord la Lega accentua i toni della sua strategia secessionista. Ad agosto è istituita, su proposta del Pds alla destra, la Commissione bicamerale per una riforma della seconda parte della Costituzione che preveda l’elezione diretta del capo dello Stato, rilanciando il presidenzialismo craxiano, e un bipolarismo maggioritario che “semplifichi” il quadro politico in nome della “governabilità”. E in nome di un nuovo compromesso storico, questa volta con la destra berlusconiana, si moltiplicano i segnali di buona volontà da parte del centrosinistra: comincia Violante a maggio con un riconoscimento ai «ragazzi di Salò», aprendo la strada al revisionismo storico che dilagherà negli anni successivi con grandi complicità a sinistra; si garantisce il rispetto del conflitto d’interesse di Berlusconi, in posizione dominante nei media; si apre, con il ministro Luigi Berlinguer, al finanziamento pubblico delle scuole private e si avvia una riforma universitaria che dequalifica i corsi di laurea; governo, imprenditori e sindacati si accordano in nome di una flessibilità del lavoro che produrrà precarietà; D’Alema lancia segnali di comprensione ai neonazisti della Lega, che sarebbero nati da una costola del Pci. È uno stillicidio di tatticismi, arretramenti, incertezze, ambiguità, che indeboliscono la sinistra e compattano la destra. La vuota retorica della “Seconda repubblica”, del “rinnovamento”, delle “riforme”, porta il centrosinistra sul terreno della destra.

Binni talvolta ha l’impressione di non aver piú la forza d’indignarsi, è stanco, disilluso, ma comunque deciso a rispettare la propria biografia: anche la morte, come la vita, è un’opera. Ad aprile ha aderito al manifesto Per la democrazia costituzionale promosso da Raniero La Valle e Franco Ippolito contro il presidenzialismo, in difesa della Costituzione. A ottobre dovrebbe partecipare a un incontro sui «Cinquant’anni della Costituzione italiana. L’attuazione dell’articolo 33», all’Università di Roma, ma le condizioni di salute glielo impediscono, anche se non manca di ricordare agli organizzatori che

[…] collaborai attivamente alla discussione e formulazione di quell’articolo, e, fra l’altro, fui promotore insieme a Corbino, Marchesi, Bernini, Codignola ed altri della precisazione «enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituzioni di educazione, senza oneri per lo Stato»: precisazione fondamentale in rapporto al principio della essenziale priorità della “scuola pubblica”, unica scuola capace di dare ai giovani una formazione laica e veramente democratica[207].

A novembre è tra i firmatari di un appello alla partecipazione alla grande manifestazione dei metalmeccanici a Roma, il 22 novembre[208], in difesa dei diritti sindacali ma anche per ridare visibilità al lavoro in tempi di prediche sulla flessibilità e sulla scomparsa della classe operaia. A dicembre partecipa all’apertura del Congresso nazionale di Rifondazione comunista, a Roma, e resta perplesso sulla precarietà del processo di “rifondazione”. È la sua ultima apparizione in un’iniziativa pubblica.

17. Millenovecentonovantasette

Nel suo studio di Via Torlonia, circondato dai libri su cui ha lavorato per tutta la vita, mette ordine nella propria memoria, mantiene relazioni epistolari con altri “sopravvissuti” come lui, dialoga a distanza con pochi viventi e una folla di morti. I suoi corrispondenti fanno altrettanto: lo colpisce profondamente una lettera di Alessandro Natta, conosciuto negli anni trenta alla Normale di Pisa, dal «malinconico isolamento» di Imperia; l’ex segretario del Pci, emarginato dopo la svolta di Occhetto, delinea un quadro amaro della situazione italiana, con il centrosinistra al governo, che Binni sostanzialmente condivide:

Caro Binni,

ho ricevuto oggi con grande piacere la tua lettera e voglio subito ringraziarti del pensiero. Formulo a mia volta gli auguri piú affettuosi per te di buona salute e di un permanente gusto per la politica, oltre naturalmente quello per la letteratura.

Da questo angolo della Liguria io continuo a seguire con qualche rovello e preoccupazione le vicende del nostro Paese, e quelle della sinistra, sempre divisa e travagliata. Non ho legami, non sono schierato con nessuno dei partiti e dei gruppi. Lo scorso anno diedi una mano ai comunisti “democratici” (del PDS) e a quelli “unitari” (di R.C.) nella speranza che maturasse una qualche positiva intesa e uno stimolo ad una piú ampia unità. Mi sembra però che siamo sempre allo stesso punto, e che né il congresso di R.C. né quello del PDS ci faranno compiere dei passi avanti. In verità io sono critico nei confronti di tutti. Intanto per la questione del governo, che sarà il vero metro di misura per tutti, siano riformisti o siano antagonisti. La maggioranza non può andare avanti alla giornata, non è consentito né al PDS né a R.C., e i margini per una competizione o per una gara di egemonia sono assai ristretti. Io auspicavo uno sforzo serio per un programma comune sulle grandi questioni di rinnovamento e di sviluppo che abbiamo di fronte, ed invece mi pare che gli uni e gli altri si preoccupino troppo di interessi immediati. Il PDS, al di là della rimozione del passato comunista, non si capisce bene quale partito voglia diventare. E R.C. non può pensare di far leva sui colpi di teatro. Il fatto è che nella realtà del mondo e dell’Europa di oggi io non vedo due diverse e contrastanti strategie della sinistra. Teorizzare ed insistere sulla tesi delle “due sinistre” non mi pare una scelta che abbia molta consistenza e possibilità, né qualche plausibile punto di riferimento in campo internazionale. Tutta la sinistra ha necessità di una analisi e di una critica piú approfondita della società e della realtà del mondo e di una messa a punto di un programma di riforma, di trasformazione, che sia avanzato e credibile. I programmi liberalsocialisti di prima della guerra erano piú rivoluzionari delle proposte di oggi, sia quelle del PDS che quelle di R.C.

Mi accorgo di scrivere delle lamentazioni. Ma anch’io vorrei che si lavorasse per dare vita ad una grande unitaria formazione della sinistra. Lo dice anche D’Alema. L’obiettivo mi sembra giusto. È la piattaforma, la visione complessiva che non corrispondono alle esigenze. Ma forse noi pretendiamo troppo, come accade agli anziani, a chi sta ai margini.

Scusa lo sfogo. Avrai capito che non mi muovo da Imperia, che resto qui in questo malinconico isolamento a “rimuginare”, ma anche sempre a sperare […][209].

Non è molto diverso il tono disperatamente lucido di una lettera di Bobbio, di questi stessi giorni del gennaio 1997:

Caro Binni,

puoi immaginare quale piacere mi abbia fatto ricevere, insieme con la tua lettera, la fotografia parigina, che ci ritrae durante il congresso della SEC (mi pare) con Aldo! Eravamo sui quarant’anni. Ora ne abbiamo il doppio. E non ci sono soltanto i capelli bianchi. Almeno per me. […]

Tiriamo avanti, con rabbia, lo capisco dalle tue parole, in questo paese incivile. Sempre piú incivile e volgare. L’Italia dell’“inciucio”, la parola chiave, a quanto pare, del linguaggio politico, usata da politici e da giornalisti con una sorta di compiacimento infantile. Bicamerale o assemblea costituente? Non se ne può piú. E intanto i grandi problemi del paese, il riordinamento dell’amministrazione della giustizia, della scuola, della sanità, della pubblica amministrazione […] non sono problemi costituzionali. Nello sfacelo del Paese la Costituzione c’entra nulla poco o nulla. C’entra solo, perché Fini e associati vogliono la repubblica presidenziale.

Come vedi, uno sfogo tira l’altro, ma ahimé, non cavano un ragno dal buco. Eppure il ragno, tanti ragni valorosi ci sono. E tanti buchi anche…

Affettuosamente, Norberto Bobbio[210].

L’11 gennaio viene pubblicata su «Liberazione» una lettera che Binni ha inviato al Sindaco di Reggio Emilia[211] in risposta all’invito a partecipare, in qualità di costituente, alla celebrazione del bicentenario del tricolore, nato il 7 gennaio 1797 in quella città a opera dei deputati della Repubblica Cispadana. Non è soltanto una lettera, in cui viene declinato un invito che Binni non è in grado di onorare per ragioni di salute; è un preciso intervento etico-politico sull’attuale situazione italiana logorata dall’onda grigia delle trame berlusconiane e fasciste, e del secessionismo leghista, attraverso la voce di chi ha partecipato alla «gloriosa Assemblea» della Costituente,

ideale continuatrice e rinnovatrice (dopo la notte della monarchia reazionaria e della dittatura fascista) degli ideali repubblicani, democratici e laici che dettero vita in Reggio alla Repubblica Cispadana e che vennero simboleggiati nella bandiera tricolore. In questa solenne ricorrenza che riveste un preciso valore solo se collegata con i valori repubblicani, democratici e laici del giacobinismo italiano, e non con un retorico e qualunquistico significato nazionale, ritengo non pretestuoso trarne motivo attuale e sentirne lo stimolo che ne viene alla difesa della nostra Costituzione (cosí altamente e strenuamente propugnata da Giuseppe Dossetti, partigiano sull’Appennino reggiano e autorevolissimo membro della Costituente). Costituzione ora minacciata da stravolgimenti presidenzialistici e populistici – non democratici – entro un tetro, ottuso clima di revisionismo storico, di omologazione dei valori e dei disvalori della nostra storia, di equiparazione fra i caduti, nella Resistenza, per la libertà e l’indipendenza del nostro paese e i caduti per il ripristino della dittatura e per l’asservimento dell’Italia alla Germania nazista. I caduti nella Resistenza possono ben essere sentiti idealmente fratelli dei giovani repubblicani cispadani e poi cisalpini e poi italiani che seguirono la «tricolorata bandiera» (per cui il giovane Foscolo dedicò alla città di Reggio l’ode Bonaparte liberatore) nella lotta armata contro gli Austriaci e le bande sanfediste pur etnicamente italiane […].

Binni ha il senso della Storia, la conosce, sa che è sempre lo scenario obbligato del giudizio critico sul passato e sul presente. Il fantasma delle “bande sanfediste”, dei “lazzaroni” al potere e al servizio del potere, si aggira di nuovo per l’Italia degli anni novanta, e l’italica tradizione della servitú volontaria dilaga in ogni settore della società in nome del “nuovo” e del “rinnovamento”. In un’intervista che rilascia alla fine di gennaio a Eugenio Manca, per «l’Unità»[212], alla quale affida le sue conclusive impressioni di fine secolo, Binni insiste sul tema:

[…] che il nuovo sia rappresentato da questa nebbia in cui si sbiadiscono i valori della democrazia, si attenuano le differenze fra destra e sinistra, tutte uguali sono reputate le ragioni dei vivi e perfino quelle dei morti – tanto quelli che caddero per la libertà e l’indipendenza quanto quelli che perirono nel tentativo di ripristinare dittatura e nazismo –, ebbene che questo sia il nuovo io proprio non lo credo. Che sia nuovo il modello liberista, nuove le teorie del mercato, nuova una parola come “privato”, nuovo lo scambio tra i concetti di “garanzia” e di “opportunità” in un progetto di revisione dello Stato sociale, nuova un’ipotesi di affidamento presidenzialista, neppure questo sono disposto a credere. Li vedo piuttosto come pessimi segnali di involuzione, spie di un clima volto alla ricerca di “normalità” e “serenità” da cui vengano espunti non solo le ideologie ma anche gli ideali, cancellate le differenze, offuscate le responsabilità storiche, avallate tendenze culturali regressive. Lasciamo stare Popper, che ciascuno tira di qua o di là, ma davvero si può considerare nuovo il pensiero di Heidegger o di Nietzsche?

Non coglie, anche lei, professore, la rilevanza, la novità della presenza di una grande forza della sinistra alla guida del paese?

La colgo interamente ma temo che tale prospettiva venga messa in forse dalle concessioni che vedo profilarsi su vari terreni: la giustizia, la scuola, lo Stato sociale, il presidenzialismo. Sarò franco: considero pericolosissimo oltre che illusorio pensare di poter procedere, insieme con minoranze composte di ex fascisti e di uomini che sono espressione di un partito-azienda, ad un raddrizzamento della situazione italiana. Pensare di poter operare una trasformazione – o come un tempo si diceva con troppo orgoglio “cambiare il mondo” – con interlocutori di questo genere non mi pare possibile.

Un altro severo osservatore della vicenda italiana, Mario Luzi, muove agli intellettuali il rimprovero della renitenza, quasi della diserzione civile di fronte all’incombere del disastro…

E mi par vero. Per lungo tempo ci fu l’intellettuale “impegnato”, che non voleva necessariamente dire partiticamente impegnato ma impegnato a un livello piú profondo, piú ambizioso. Oggi la parola impegno è diventata dispregiativa e ciò è molto grave: l’impegno, non certo in forma “zdanoviana”, è importante: è importante dare una prospettiva al proprio lavoro, sono importanti l’impegno stilistico, la ricerca linguistica, la sperimentazione, la creatività. Confesso che se guardo alle nuove generazioni di scrittori, portatori di quella moda di porcheriole che si definisce letteratura trash, e li raffronto alle generazioni precedenti, dei Gadda, dei Calvino, di Bilenchi, di Pratolini, di Cassola, di Tobino, dello stesso Pasolini, sono davvero imbarazzato.

Professore, che cosa ci salverà: la poesia, forse?

Io ho molti dubbi sulle virtú taumaturgiche della poesia, la quale del resto non sfugge a quel clima di ambiguità ed equivoco cui accennavo. Neppure il grande Leopardi è stato risparmiato da una revisione in chiave nichilistica e persino reazionaria ad opera di Cioran e dei suoi seguaci italiani, in opposizione alla interpretazione che è mia da gran tempo di un Leopardi profondamente pessimista e perciò violentemente protestatario e ansiosamente proteso verso una nuova società fondata su di un assoluto rigore intellettuale e morale e su di un “vero amore” per gli uomini persuasi della propria miseria e caducità senza “stolte” speranze ultraterrene. Comunque la poesia da sola non basta, essa va innervata in ogni altra attività umana. Alla base c’è la vita civile che deve essere intessuta di democrazia. E c’è la scuola – la scuola pubblica, laica, che non si alimenta di alcun credo già fatto, strumento fondamentale di formazione delle nuove generazioni – che va difesa strenuamente, sottratta a qualunque patteggiamento, senza incertezze di antica o nuova origine.

Pochi giorni dopo, il 9 febbraio, Binni invia alla direttrice dell’Archivio di Stato di Perugia, Clara Cutini[213], le quasi 700 lettere ricevute da Capitini, dal 1931 al 1968[214]. Nei mesi precedenti ha anche provveduto a ordinare, con l’aiuto indispensabile della sua compagna di tutta una vita, le migliaia di lettere che Elena ha conservato dagli anni quaranta in poi; all’interno della corrispondenza generale ha selezionato le lettere di circa 106 corrispondenti scelti, di particolare rilevanza letteraria e politica: tra gli altri, Luciano Anceschi, Guido Aristarco, Luigi Baldacci, Giorgio Bassani, Lelio Basso, Romano Bilenchi, Norberto Bobbio, Alessandro Bonsanti, Vittore Branca, Guido Calogero, Italo Calvino, Delio Cantimori, Giorgio Caproni, Carlo Cassola, Gianfranco Contini, Benedetto Croce, Giuseppe Dessí, Danilo Dolci, Franco Fortini, Mario Fubini, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Garin, Ludovico Geymonat, Pietro Ingrao, Riccardo Lombardi, Cesare Luporini, Attilio Momigliano, Eugenio Montale, Alessandro Natta, Pietro Nenni, Pietro Pancrazi, Ferruccio Parri, Giorgio Pasquali, Sandro Pertini, Vasco Pratolini, Carlo Ludovico Ragghianti, Mario Rigoni Stern, Luigi Russo, Natalino Sapegno, Ignazio Silone, Sebastiano Timpanaro, Mario Tobino, Giuseppe Ungaretti, Manara Valgimigli, Claudio Varese, Franco Venturi, Lionello Venturi[215]. Mette ordine anche nelle fotografie, in qualche caso riesce a datarle. È un continuo confronto con la memoria. Decide di destinare a uso pubblico la propria biblioteca, costruita lungo tutto il suo percorso di studioso[216]. Il suo corpo sta morendo, gli toglie il respiro e gli rende difficile camminare. L’11 marzo partecipa alla presentazione romana del libro di Novella Bellucci Giacomo Leopardi e i contemporanei[217], ed è la sua ultima apparizione in pubblico. Il 18 aprile dovrebbe partecipare al convegno pisano «La figura e l’opera di Aldo Capitini» con un «ricordo», ma è costretto a rinunciare; invia comunque agli organizzatori un messaggio che è l’ultimo omaggio all’amico e maestro, in cui non mancano precisi riferimenti a un presente inaccettabile:

Addolorato di non poter essere presente al Convegno, per ragioni di salute, desidero esprimere la mia piú intensa ideale partecipazione e ricordare almeno, anche in questa occasione, la insostituibile presenza di Aldo Capitini nella mia formazione intellettuale e morale, e la grande, intensissima novità rivoluzionaria, in ogni senso, che quella presenza costituí per la mia generazione e per tutto l’antifascismo. Presenza tuttora intensa e valida in chi, come noi, sente l’assoluta necessità di opporsi decisamente al tetro clima consumistico e neoliberista che grava sulla vita del nostro paese e ritrova nella lezione di Aldo Capitini un appoggio essenziale a una risposta veramente alternativa (il potere dal basso, il tu-tutti, la non accettazione della realtà limitata ed ostile). Invio saluti e auguri affettuosi agli amici convenuti a illustrare la grande opera religiosa, filosofica e politica di Aldo Capitini[218].

Il 6 giugno non può partecipare a una celebrazione del 50° anniversario della Repubblica, a Perugia, nel corso della quale gli viene conferita una medaglia d’oro della Giunta regionale in quanto deputato umbro all’Assemblea costituente; si scusa con il presidente Bruno Bracalente con una lettera in cui non manca di ricordare il valore della Costituzione «che tuttora ritengo fermamente valida nei suoi princípi e ispirazioni fondamentali, vera difesa della nostra libera e avanzata democrazia».

Nei momenti di tregua delle difficoltà respiratorie lavora ai suoi due ultimi progetti: la monografia leopardiana (ma nell’estate dovrà rinunciare, rescindendo il contratto con gli Editori Riuniti) e il volume degli scritti novecenteschi che sarà pubblicato postumo[219]. Partecipa, con grande fatica, ad alcune riunioni dell’Accademia dei Lincei, e svolge un ruolo determinante nell’assegnazione del Premio Feltrinelli 1997 a Mario Rigoni Stern e Giovanni Giudici, di cui scrive i giudizi critici. Invia la propria adesione a una manifestazione contro la Lega che si svolge, il 21 giugno, a Pordenone per iniziativa di alcuni studenti e docenti del liceo classico Leopardi, riuniti nell’associazione «Il Cerchio giallo». Quando è stremato, cerca di procurarsi energia con la musica, e la trova negli ultimi quartetti di Beethoven, irti di spezzature, sconvolgenti, che non finiscono mai di stupirlo e commuoverlo. Riprende in mano i versi di Michelstaedter, della scoperta giovanile della poesia, e rilegge piú volte ai familiari, ad alta voce, I figli del mare, come volendo chiudere il cerchio di una vita che comunque si è scelto e costruito. Il 3 novembre invia al presidente dell’Umbria un assegno di 1 milione come contributo di sottoscrizione per le popolazioni umbre e marchigiane colpite dal terremoto del 26 settembre.

Il 4 novembre chiude il testo autobiografico Perugia nella mia vita. Quasi un racconto[220] iniziato il 4 novembre 1982; il 4 novembre è il giorno della morte della madre, una ferita rimasta sempre aperta. Il 15 novembre, non avendo potuto partecipare alla loro premiazione ai Lincei, vengono a trovarlo Rigoni Stern e Giudici; è un incontro piacevole e affettuoso. Nello stesso giorno invia la propria adesione alla celebrazione del 50° anniversario della Repubblica e della Costituzione che si terrà a Roma il 10 dicembre per iniziativa della Presidenza della Repubblica.

Nei giorni successivi le condizioni di salute di Binni rendono necessario il suo ricovero in una clinica. Il 20 novembre detta il suo ultimo testo: un saluto inaugurale per la cerimonia di apertura delle manifestazioni del bicentenario della nascita di Leopardi, promosse dal Comitato nazionale di cui Binni è presidente, e che si terrà a Roma, in Campidoglio, il 19 gennaio 1998:

Sono molto grato a chi, a nome dei miei numerosi allievi di ieri e di oggi, mi ha invitato a pensare a un saluto inaugurale per la cerimonia di apertura delle molte manifestazioni dell’«anno leopardiano».

Chi mi ha chiesto questo gesto simbolico ha certamente voluto ricordare ancora una volta sia la funzione, che mi è stata attribuita, di “maestro di maestri” (molti dei miei allievi di un tempo sono infatti maestri di nuovi allievi) sia il segno che la mia opera davvero lunga di critico leopardiano e di docente di numerosi corsi leopardiani in anni cruciali e vitali della nostra università ha complessivamente inciso (forse piú di quanto io stesso abbia realizzato) sulle vite di chi ha voluto in molti modi ascoltare e ricordare quello che ho detto su Leopardi e che per me non è stato mai svincolato da una pratica intellettuale e politica che è la chiave di volta delle mie interpretazioni.

[…]

Mentre scrivo ricorre il cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Nuova poetica leopardiana (di cui esce proprio in questi giorni una tempestiva ristampa) che, a detta di molti, segnò una svolta nel pensiero critico su Leopardi, e che io stesso ho sempre considerato come una tappa della mia vita desanctisianamente personale-creativa e pubblica (ero allora deputato dell’Assemblea Costituente e intervenni piú volte in difesa della scuola pubblica).

È da lí che, per dirla con le parole veramente affettuose di un leopardista di vaglia come Luigi Blasucci, la mia funzione di critico fu quella di «smuovere le acque del leopardismo di metà secolo, acque di placida laguna». E questo con una «appassionata unilateralità», tesa ad affermare una «nuova poetica» che svegliasse la critica leopardiana fino a quel punto «dal suo sonno dogmatico (idillico)».

Non posso qui diffondermi sulle tappe successive a quel libro cruciale, ma voglio almeno ribadire come il mio gesto critico di allora (derivato da oltre un decennio di prove in quella direzione a cominciare da una tesina leopardiana alla Normale nel ’33) potesse sí sembrare “unilaterale”, ma certamente non era “unidimensionale” come gli esiti della critica precedente, critica appunto di un Leopardi “a una dimensione”. […] So che quella lezione ha avuto la sua funzione, a suo modo “eroicamente” energetica e coerente con se stessa, e che questa sua voce, netta e comprensibile a molti in questo minaccioso fin de siècle, può anche risuonare invisa, per la sostanza indiscutibile storica e metodologica che riesce a trasmettere in tempi di crepuscolo dell’attività critica, a chi ripropone oggi le «acque di placida laguna» di cui parla cosí bene Blasucci per tendenze di mezzo secolo fa. La falsa disperazione omologata a mode “nere” e nefaste che si vorrebbe leggere in Leopardi, una sua ineffabilità reclusa in se stessa, rispondono certo a retoriche “di laguna”. Certo non meritano che il sorriso di Eleandro. Leopardi ha prima di tutto trasmesso, a chi ne ha ritrasmesso e interpretato i valori formali e la sostanza dei contenuti, il superamento del fondale libresco cui pensano i proponenti di questa linea asfittica e rudimentale.

Auguro alle molte vive voci che animeranno il dibattito dell’anno leopardiano di poter riasserire la verità della poesia leopardiana e il suo cruciale esempio per il millennio che verrà[221].

Binni muore la mattina del 27 novembre 1997. Il giorno successivo, al suo funerale nel cimitero di Perugia[222], bandiere rosse, il gonfalone della sua città, le note della Passione secondo Matteo di Bach.


1 W. Binni, scritto autobiografico inedito del 1993; archivio del Fondo Walter Binni.

2 Soprattutto dal 1980, anno in cui scrive un ricordo dello zio materno Augusto Agabiti in occasione del centenario della nascita (W. Binni, Ricordo di Augusto Agabiti, «Studia Oliveriana», Pesaro, vol. IV, 1984), Binni si impegna a ricostruire il proprio retroterra genetico-culturale, all’origine della propria condizione di intellettuale «disorganico e sradicato», come scriverà nello scritto autobiografico Perugia nella mia vita. Quasi un racconto, chiuso il 4 novembre 1997 e pubblicato postumo nel 1998, poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri, nuova edizione ampliata, Edizioni del Fondo Walter Binni, coedizione con Morlacchi editore, Perugia 2007: «Cosí, disorganico alla classe borghese in cui mi ha posto assai marginalmente la mia situazione sociale, sradicato dalla vecchia classe giustamente battuta da cui sostanzialmente provengo, scomodo, ma pertinace e volontario alleato della classe proletaria (ormai in gran parte imborghesita e disgregata dal consumismo e dallo sviluppo tardo-capitalistico in gruppi sociali per ora mal definibili) e allontanatomi da tanto tempo dalle formazioni partitiche socialiste in cui ho militato sempre piú con difficoltà e contrasti, ma non dalla “sinistra”, vivo e soffro la condizione di un intellettuale assolutamente disorganico e sradicato, anche se ostinatamente proteso ed attento ad ogni segno di cambiamento rispetto alla società attuale in cui sono costretto a vivere».

3 W. Binni, Perugia nella mia vita. Quasi un racconto cit.

4 W. Binni, «Il libro VI dell’Eneide», in Aa.Vv., Saggi virgiliani, a cura del Liceo Cicognini di Prato, Prato, Arti Grafiche Nutini, 1930.

5 Binni trascrive a macchina questo testo nel 1929-30, probabilmente da un volume prestatogli da Gaetano Chiavacci, già amico di Michelstaedter.

6 W. Binni, Ricordo di Aldo Capitini, «Azione nonviolenta», a. VII, n. 10-11, ottobre-novembre 1970, poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri, Quaderni Regione dell’Umbria. Serie Studi Storici, n. 4, Perugia 1984, 1989; Quaderni del Comune di Perugia, Guerra Edizioni, ivi 2001; nuova edizione ampliata, Edizioni del Fondo Walter Binni, coedizione con Morlacchi editore, ivi 2007.

7 A. Capitini, W. Binni, Lettere 1931-1968, a cura di L. Binni e L. Giuliani, introduzione di M. Martini, Fondazione Centro Studi Aldo Capitini, Roma, Carocci, 2007, p. 18.

8 Sugli studi leopardiani di Capitini e le diverse posizioni critiche di Capitini, Luporini e Binni vedi L. Giuliani, Capitini, Luporini, Binni: tre interpreti del pensiero leopardiano, 2002, in www.fondowalterbinni.it, sezione «Contributi».

9 W. Binni, scritto autobiografico inedito cit.

10 W. Binni, ivi.

11 W. Binni, ivi.

12 U. Carpi, «La collaborazione di Walter Binni al «Campano» (1934-1935)», in Aa.Vv., Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, Roma, Bonacci, 1985.

13 W. Binni, L’ultimo periodo della lirica leopardiana, a cura di C. Biagioli, introduzione di E. Ghidetti, Edizioni del Fondo Walter Binni, coedizione con Morlacchi editore, Perugia 2007.

14 W. Binni, ivi, p. 126.

15 W. Binni, Conoscenza di Petroni, «Il Campano», a. XII, n. 2, marzo-aprile 1934, pp. 11-13.

16 W. Binni, Per un commiato, ivi, n. 5, settembre-ottobre 1934, p. 14.

17 Momigliano, a seguito delle leggi razziali del 1938, sarà poi cacciato dall’Università, e costretto a nascondersi dopo l’8 settembre 1943; per un periodo resterà nascosto in Umbria, per iniziativa di Capitini e Binni.

18 W. Binni, La Germania e la civiltà europea, «Il Campano», a. XII, n. 5, settembre-ottobre 1934, pp. 11-13.

19 W. Th. Elwert, Per una migliore comprensione della Germania d’oggi, «Il Campano», a. XIII, n. 2, aprile 1935.

20 W. Binni, Nota in calce a W. Th. Elwert cit., p. 11.

21 W. Binni, Importanza del movimento della «Voce», «Il Campano», a. XIII, n. 3-4, maggio-giugno 1935, pp. 28-30, poi in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche, a cura di F. e L. Binni, Milano, Sansoni, 1999.

22 G. Ferroni, introduzione a Poetica e poesia. Letture novecentesche cit., p. VI.

23 A. Momigliano, La poetica del decadentismo, «Corriere della sera», 9 ottobre 1936, poi in A. Momigliano. Elzeviri, Firenze, Le Monnier, 1945.

24 P. Ingrao, Binni e gli altri, «il manifesto», 30 novembre 1997, p. 2. Ricorda Ingrao: «Fu in quella metà degli anni Trenta che mi arrivò da Pisa il libro di Binni, che collegava la vicenda letteraria italiana del primo quarto di secolo nel grande orizzonte del decadentismo europeo e della straordinaria ricerca espressiva che si allargava nel continente e ne avrebbe segnato la cultura. In quel libretto di Binni non c’era una parola che riguardasse la politica. Ma l’uso critico che egli faceva del concetto di “poetica” non solo era estraneo alla cultura del regime ma ricollocava la creazione letteraria dentro una nozione e una pratica di storicismo che rimandava alla società, ai suoi flussi culturali, rivisitati alla luce dei grandi eventi letterari europei. Si usciva dalla provincia. Si richiamavano le fonti di quelle culture innovatrici che già venivano messe ai roghi da Hitler. […] Eravamo provinciali. Alcuni – come Walter Binni – ci aiutarono a districarci nella selva della cultura italiana moderna, a ricostruire un’altra storia dei poeti e della letteratura di questo Paese. Chi dice che questo non conta? Certi versi brevi, certi libri sono stati una mina (e un allargamento di orizzonti) nella vicenda sanguinosa di questo Paese […]».

25 W. Binni, Ricordo di Aldo Capitini cit.

26 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, Catania, edizioni Célèbes, 1966, pp. 73-74.

27 G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, Torino, Utet, 2006, p. 344.

28 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani cit., p. 97.

29 A. Capitini, ivi, p. 98.

30 A. Capitini, ivi, p. 98.

31 W. Binni, Vita interiore dell’Alfieri, Bologna, Cappelli, 1942.

32 W. Binni, «Premessa» a Saggi alfieriani, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 10-11.

33 G. Gubitosi, «Forze e vicende politiche tra il 1922 e il 1970», in A. Grohman, Perugia, Bari, Laterza, 1990, p. 234.

34 Archivio di Stato di Perugia.

35 Archivio di Stato di Perugia.

36 «Per la Dc e il Pci – scrive G. Gubitosi, op. cit., p. 237 – il Cln poteva costituire un limite alla propria azione tra le masse, perché l’unità del Cln poteva impedire loro di presentarsi alle masse con la propria identità ed essi non potevano rinunciare a questa esigenza. La Dc non poteva rinunciarvi perché aveva bisogno di recuperare quei cattolici che avevano aderito al fascismo a seguito dell’atteggiamento assunto dal clero e i comunisti perché, per mettere radici nel quadro politico che si delineava, dovevano porre in rilievo il proprio specifico ruolo nella lotta al fascismo e al nazismo. Cosí la Dc rimase a lungo fuori dal Cln mentre il Pci esercitò una continua pressione su quest’organo, accusandolo con insistenza di attesismo, ma nessuno di questi due partiti accettò mai il Cln come un reale punto di riferimento. Quanto ai socialisti, costantemente dimidiati tra le pressioni dei comunisti e il difficile compito di restaurare la propria immagine, fortemente compromessa dalle vicende del primo dopoguerra, oscillavano tra la valorizzazione della componente riformista e democratica della tradizione socialista e l’accentuazione della lotta di classe. […] I partiti e i movimenti minori, vale a dire i repubblicani, i liberali, gli azionisti, i demolaburisti e lo stesso movimento liberalsocialista si preoccuparono principalmente, almeno fino alla liberazione di Perugia, di porre le basi di un sistema politico nel quale, in prospettiva, ci fosse spazio per il ruolo che essi intendevano svolgere».

37 La storia del «Corriere di Perugia» è stata puntualmente ricostruita da F. Bracco nella sua introduzione alla ristampa anastatica del periodico, a cura dell’Istituto per la storia dell’Umbria dal Risorgimento alla Liberazione, Perugia, E.U.Coop, editrice umbra cooperativa, 1980. Vedi anche W. Binni, «Il “Corriere di Perugia”», in La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri cit., edizione 2007, pp. 141-147, qui riprodotto alle pp. 295-299.

38 La tomba di Joseph Matuska si trova nella parte piú alta del nucleo storico del cimitero di Perugia, vicino al monumento alle vittime del XX giugno 1859 e a pochi metri dalla tomba di Walter Binni.

39 «Walter Binni è stato, senza meno, uno dei giovani poco al di sopra dei 20 anni che quando l’antifascismo era ridotto a schiera ben esigua, tra i primi si staccarono dal fascismo, e tra i primi usarono contro il fascismo non l’antifascismo da salotto, ma quei metodi che allora erano possibili ed efficaci. Nel ’36 infatti entrò a far parte di un gruppo clandestino di antifascisti che andò crescendo con gli anni in Italia anche per opera sua perché egli attivamente partecipò alla vita del movimento, con viaggi, discussioni, ricerche di aderenti, partecipazioni a convegni in varie città, Roma compresa. Egli ben presto fu noto al migliore ambiente antifascista, ed ebbe rapporti con il Croce, con Calogero, con Ginzburg, con Alicata, con Montale, con Vittorini, con Russo, con Flora, con Banfi ecc., a Roma, Pisa, Firenze, Milano, Torino e altrove, cosí che nessuno ha mai potuto dubitare che il suo nome, noto nel campo letterario, potesse significare altro che studioso antifascista. […] Del resto, se invece di accusare senza sapere, si leggesse quello che Binni ha scritto (e che è a disposizione di tutti) su riviste su cui quasi tutti gli scrittori, e specialmente i giovani collaboravano, si troverebbero espressioni estremamente chiare contro il fascismo, e ciò, ad esempio, nella Vita interiore dell’Alfieri. Dell’antifascismo del Binni sarebbero stati certo testimoni anche molti amici, giovani scomparsi per l’antifascismo, che furono suoi scolari ed amici, come Ciabatti, Enzo Comparozzi, o piú anziani, come Pascolini, o deportati, come Granata.[…]», Alberto Apponi, Luigi Catanelli, Enea Tondini, Averardo Montesperelli, Alfredo Cotani, Aldo Capitini, Giuseppe Paletta, Alfredo Abatini, Una precisazione, «Il Socialista», 10 maggio 1945.

40 W. Binni, scritto autobiografico inedito cit., p. 65.

41 Remo Mori e Maurizio Mori.

42 W. Binni, scritto autobiografico inedito cit., p, 67.

43 W. Binni, Uno strumento della nuova democrazia, «Democrazia Socialista. Quindicinale indipendente di politica, economia e storia», diretto da M. Frezza, A. II, n. 1, Lucca, 20 gennaio 1946, p. 5. L’articolo è stato ripubblicato in «Micropolis», a. IX, n. 11, Perugia, dicembre 2004, e poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 2007, pp. 121-124.

44 W. Binni, ivi, pp. 123-124.

45 W. Binni, Storia, non avventura, «Europa Socialista», a. I, n. 6, 16-31 maggio 1946, p. 5.

46 A. Capitini, W. Binni, Lettere 1931-1968 cit., p. 36.

47 Il simbolo del Psi dopo la scissione.

48 Il simbolo della Gioventú socialista dell’ex Psiup, che a Perugia è confluita nel Psli di Saragat.

49 Iniziativa Socialista, la corrente di Zagari all’interno del Psiup.

50 Critica sociale, la corrente socialista che faceva riferimento all’omonima rivista fondata da Turati.

51 Testo riprodotto in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 2007, pp. 125-138

52 W. Binni, Scuola e Costituente, recensione a F. Bernini, Scuola pubblica e libertà d’insegnamento davanti alla Costituente, «Europa Socialista», a. II. , n. 2, 2 marzo 1947, pp. 14-15.

53 W Binni, Scuola e Costituzione, «Mercurio», Roma, nn. 31-32-33, marzo-aprile-maggio 1947, pp. 5-9.

54 W. Binni, Libertà della scuola, «Il Mondo europeo», Roma, a. I, n. 4, 1 aprile 1947.

55 W. Binni, Scuola e Costituzione, «Il Nuovo Corriere», Firenze, 3 aprile 1947, p. 1.

56 W. Binni, Come riorganizzare il movimento socialista?, «Europa Socialista», a. II, n. 30, febbraio 1947, pp. 3-4; La guerra nella Costituzione, ivi, pp. 8-9; Si devono chiudere le case di tolleranza?, ivi, p. 9; Conformismo e nuova società, ivi, p. 13; Libertà delle religioni, ivi, a. II, n. 9, 20 aprile 1947; Estetica e condizione umana, ivi, a. II, n. 11, 4 maggio 1947.

57 W. Binni, Crisi e avvenire del socialismo in Italia, «Mercurio», a. IV, n. 30, febbraio 1947, pp. 15-20.

58 W. Binni, «Premessa» alla terza edizione di Preromanticismo italiano, Firenze, Sansoni, 1985, p. V.

59 W. Binni, ivi, p. VI.

60 W. Binni, «Premessa» a Metodo e poesia di Ludovico Ariosto e altri studi ariosteschi, a cura di Rosanna Alhaique Pettinelli, Firenze, La Nuova Italia, 1966, p. XI.

61 W. Binni, «Premessa» a La nuova poetica leopardiana, ottava ed., Milano, Sansoni, 1997, p. XIX.

62 A. Capitini, W. Binni, Lettere 1931-1968 cit., p. 39.

63 W. Binni, «Per la morte di Gandhi», in La tramontana a Porta Sole cit., edizione 2007, pp. 139-140.

64 Documento autografo dell’archivio del Fondo Walter Binni, pubblicato nel 2001 in www.fondowalterbinni.it, sezione «Tracce e documenti».

65 Dal resoconto del Convegno, in «L’Italia Socialista», Roma, 8 maggio 1948, p. 1.

66 W. Binni, «Perugia nella mia vita. Quasi un racconto», in La tramontana a Porta Sole cit., edizione 2007, pp. 43-44.

67 Oggi palazzo Boccella, in via S. Giorgio 64. Anche nel retroterra familiare di Elena Benvenuti, come in quello di Binni, c’è la confluenza di ceti aristocratici (i Bernardini di Lucca, i Sensi Contugi di Volterra) e borghesi (Benvenuti); il palazzo Bernardini, rimasto in parte di proprietà dei Benvenuti, era l’ultima traccia di un percorso di progressiva decadenza sociale iniziata alla fine degli anni trenta.

68 F. De Nicola, Il ritorno del Maestro fra i “ragazzi” di Lettere, intervista a W. Binni, «Il Secolo XIX», Genova, 20 maggio 1994, p. 9.

69 V. Alfieri, Giornali e lettere scelte, introduzione e cura di W. Binni, Torino, Einaudi, 1949.

70 W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951.

71 W. Binni, Tre liriche del Leopardi, Lucca, Lucentia, 1950.

72 W. Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca, Lucentia, 1951.

73 F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, edizione critica e commento a cura di W. Binni, Bari, Laterza, 1953, 1961.

74 Aa.Vv., I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, Firenze, La Nuova Italia, 1954-55, due voll. ai quali se ne aggiungerà un terzo nel 1971.

75 F. De Nicola, Il ritorno del Maestro fra i “ragazzi” di Lettere cit.

76 W. Binni, Premessa, «La Rassegna della letteratura italiana», nn. 1-2, gennaio-febbraio 1953, pp. 3-4. Il testo integrale dell’editoriale è in www.fondowalterbinni.it, sezione «Tracce e documenti».

77 W. Binni, Il XX giugno 1859 nel Risorgimento italiano, «Perusia», n. 3, maggio-giugno 1955, poi in La tramontana a Porta Sole cit., edizione 2007, pp. 53-78.

78 Il documento, pubblicato dall’«Avanti!», da numerose testate dell’area socialista e da quotidiani nazionali, è stato riprodotto in A. Capitini. W. Binni, Lettere 1931-1968 cit., p. 81, n. 1.

79 I documenti relativi al manifesto e al movimento dei «Socialisti senza tessera» fanno parte dell’archivio del Fondo Walter Binni presso l’Archivio di Stato di Perugia.

80 W. Binni, «La critica letteraria», in Aa.Vv., La filosofia contemporanea in Italia, II, Società e filosofia oggi in Italia, Roma-Asti, Arethusa, 1958, pp. 323-334, poi in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit., pp. 227-249.

81 W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, «La Rassegna della letteratura italiana», a. LXIV, n. 1, gennaio-aprile 1960, pp. 5-33.

82 W. Binni, Una dichiarazione all’Avanti!, «Avanti!», 20 ottobre 1960, pp. 1 e 8.

83 W. Binni, L’agitazione universitaria a Firenze, «Il Ponte», a. XVII, giugno 1961, pp. 831-837. Sugli avvenimenti fiorentini Binni scrive inoltre il 2 luglio una lettera aperta al direttore della «Nazione», Firenze, 8 luglio, pubblicata in parte; il testo integrale fa parte dell’archivio del Fondo Walter Binni.

84 W. Binni, L’agitazione universitaria e le vicende dell’Ateneo fiorentino, «Tribuna universitaria. Giornale dell’Unione Nazionale Assistenti Universitari», Genova, a. I, n. 4, luglio 1961, p. 1.

85 Lettera di Ferruccio Parri a W. Binni, 8 settembre 1961, archivio del Fondo Walter Binni.

86 Il testo dell’appello, pubblicato da quotidiani e riviste, fu poi pubblicato in In cammino per la pace. Documenti e testimonianze della Marcia Perugia-Assisi, a cura di A. Capitini, Torino, Einaudi, 1962, p. 21. A proposito dell’appello, Capitini scrive: «Un intervento decisivo fu quello di Parri, Binni ed Enriques Agnoletti, con la circolare che è riportata tra le adesioni», ivi, p. 21.

87 A. Capitini, Mozione del popolo per la pace, ivi, pp. 47-50.

88 A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, Torino, Einaudi, 1950.

89 In cammino per la pace. Documenti e testimonianze della Marcia Perugia-Assisi, a cura di A. Capitini cit., pp. 55-56.

90 W. Binni, intervento alla marcia per la pace Camucia-Cortona, 18 marzo 1962, pubblicato in parte in «Il Ponte», a. XVIII, n. 4, aprile 1962, pp. 593-594. L’autografo integrale fa parte dell’archivio del Fondo Walter Binni.

91 Binni ne traccia un ampio profilo nel saggio La critica di Luigi Russo, «Belfagor», a. XVI, n. 6, 30 novembre 1961, pp. 698-734, poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit., edizione 1963 e in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993, pp. 175-218.

92 W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963.

93 W. Binni, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963.

94 W. Binni, L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963.

95 W. Binni, R. Scrivano, Antologia della critica letteraria, Milano, Principato, 1961.

96 W. Binni, Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960.

97 W. Binni, Premessa a Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993, p. V.

98 L. Baldacci, Un saggio di Binni sui problemi della critica moderna, «Epoca», 3 settembre 1963.

99 A. Rossi, Storicismo e strutturalismo, «Paragone-Letteratura», a. XIV, n. 166, ottobre 1963; A. Rossi fa parte del comitato di redazione della rivista.

100 W. Binni, Costume e cultura, «Il Ponte», a. XIX, n. 11, novembre 1963.

101 A. Rossi, Lettera polemica contro “la poetica del vecchietto”. “Storicismo” e pettegolezzi, «Paese Sera», supplemento libri, 13 dicembre 1963, pp. 1-2.

102 Una discussione aperta. Cultura e costume, «Il Ponte», a. XIX, n. 12, dicembre 1963, p. 1607.

103 W. Binni, Polemicissima risposta alla lettera di Aldo Rossi (il titolo è redazionale), «Paese Sera», supplemento libri, 20 dicembre 1963, pp. 1-2.

104 Una lettera di C. L. Ragghianti, ivi, p. 1.

105 Lettera di L. Baldacci, ivi, p. 2.

106 Lettera di R. Longhi, «Paese Sera», supplemento libri, 27 dicembre 1963, p. 1.

107 Lettera di C. Luporini, ivi, p. 1.

108 Lettera di G. Manacorda, ivi, p. 1.

109 S. Guarnieri, «Paese Sera», supplemento libri, 3 gennaio 1964, p. 2.

110 G. Corsini, ivi, p. 2.

111 W. Binni, Michelangelo scrittore, «La Rassegna della letteratura italiana», a. LXVIII, serie VII, n. 2-3, maggio-dicembre 1964, pp. 213-255, successivamente ampliato nel volume W. Binni, Michelangelo scrittore, Roma, Ateneo, 1965; Torino, Einaudi, 1975.

112 W. Binni, R. Scrivano, Storia ed antologia della letteratura italiana, Milano-Messina, Principato, 1966; W. Binni, R. Scrivano, Introduzione ai problemi critici della letteratura italiana, Messina-Firenze, D’Anna, 1967.

113 A. Quondam, Anni ’60, alla Sapienza arrivò un ciclone, «l’Unità», 28 novembre 1997.

114 W. Binni, «Il Settecento letterario», in Aa.Vv., Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. VI, Il Settecento, Milano, Garzanti, 1968.

115 Le lezioni saranno poi pubblicate nel volume W. Binni, Ariosto, Roma, Eri, 1968.

116 W. Binni, N. Sapegno, Storia letteraria delle regioni d’Italia, Firenze, Sansoni, 1968.

117 W. Binni, Università, una battaglia democratica da condurre fino in fondo, «Argomenti Socialisti», a. II, nuova serie, n. 1, maggio 1966, pp. 43-45.

118 Aa.Vv., Per il “Libro Bianco” dell’Università di Roma, Roma, 15 maggio 1966.

119 Nel maggio 1965 si era svolto a Roma, per iniziativa dell’Istituto A. Pollio di studi militari, un convegno di fondazione della strategia della tensione, con la partecipazione di alti esponenti dell’esercito e delle organizzazioni della destra piú radicale.

120 Aa.Vv, Per il “Libro Bianco” dell’Università di Roma cit. p. 22.

121 L’orazione funebre per Paolo Rossi è pubblicata con il titolo Omaggio a un compagno caduto in «Mondo Operaio», a. XIX, n. 4, aprile 1966, pp. 1-5, poi in Aa.Vv., Dovere di resistenza, Milano, Collettivo editoriale 10/16, 1975, e in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

122 Achille Cruciani, che nel 1972 sarà arrestato per una truffa economica ai danni dell’esercito.

123 Il libro bianco sull’Università con le “prime documentazioni sulle attività di gruppi illegali”. In questo clima di violenze fasciste è maturata l’aggressione a Paolo Rossi, «Paese Sera», Roma, 17 maggio 1966, pp. 10-11.

124 Fotografie di A. Mordenti, pubblicate nell’opuscolo Ricordiamo Paolo Rossi, Roma, 28 aprile 1967.

125 W. Binni, A sette mesi dalla morte di Paolo Rossi, «La Conquista», Roma, novembre-dicembre 1966, pp. 17-20.

126 Lettera di A. Capitini a W. Binni, 2 maggio 1966, archivio del Fondo Walter Binni.

127 Dossier “Paolo Rossi”, archivio del Fondo Walter Binni.

128 Ferma risposta a una provocazione. Solidale con Binni la Resistenza toscana, «Avanti!», Roma, 13 maggio 1966, e altre testate nazionali.

129 A. Capitini, A. Montesperelli, A. Apponi, L. Catanelli, Solidarietà con Walter Binni, «l’Unità», Milano, 21 maggio 1966, e altre testate nazionali.

130 Aa.Vv., Manifesto del «Comitato di iniziativa dei socialisti romani per la pace nel Vietnam», Roma, aprile 1967, archivio del Fondo Walter Binni.

131 Testo pubblicato in «Paese Sera», Roma, 30 aprile 1968, con il titolo Professori e sindacato scuola solidarizzano con gli studenti, e in altre testate nazionali. L’autografo fa parte dell’archivio del Fondo Walter Binni.

132 Testo pubblicato in «Paese Sera», Roma, 8 maggio 1968, con il titolo Richieste dei docenti a D’Avack, e in altre testate nazionali.

133 Aa.Vv., Firenze, dicembre 1967. Tesi e proposte per una strategia del movimento studentesco, a cura di L. Binni, «Il potere è di tutti», a.IV, n. 9-10-11-12, settembre-ottobre-novembre-dicembre 1967.

134 A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Milano, Il Saggiatore, 1966.

135 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, Catania, Edizioni Célèbes, 1967.

136 A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Milano, Feltrinelli, 1967.

137 A. Capitini, Attraverso due terzi di secolo, «La Cultura», n. 10, 1968.

138 W. Binni, Estremo commiato, «Il Ponte», a. XXIV, n. 11, novembre 1968, pp. 1325-1328, poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 2007, pp. 153-157.

139 I. Palermo, Bocciati i professori, «La Fiera Letteraria», 28 novembre 1968.

140 Articolo non firmato, La legge per l’Università ancora al centro di commenti, «Paese Sera», 14 aprile 1969.

141 Articolo non firmato, Dopo Battipaglia. L’Università contro la repressione, «l’Unità», 23 aprile 1969.

142 Articolo non firmato, La protesta all’Università. Un appello di docenti contro i disegni eversivi della destra, «l’Unità», Roma, 14 dicembre 1969.

143 W. Binni, N. Sapegno, Storia letteraria delle regioni d’Italia cit.

144 W. Binni, Breve profilo della storia letteraria umbra, poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 2007, pp. 199-215.

145 W. Binni, «Il Settecento letterario», in Aa.Vv., Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. VI, Il Settecento, Milano, Garzanti 1968, pp. 309-1024.

146 G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, 1976, 1983, 1985, 1988, 1993.

147 W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973.

148 W. Binni, Saggi alfieriani, Firenze, La Nuova Italia, 1969.

149 A. Bonsanti, Binni, o della coerenza, in Portolani d’agosto 1971-1974, Milano, Mondadori, 1974, pp. 227-229.

150 Manifesto (giugno 1971) firmato da 756 intellettuali, artisti e politici (tra gli altri, Carlo Salinari, Gillo Pontecorvo, Giulio A. Maccacaro, Elvio Fachinelli, Federico Fellini, Cesare Zavattini, Paolo Mieli, Walter Binni, Franco Fortini, Giorgio Amendola, Renato Guttuso, Natalia Ginzburg, Franco Basaglia, Marco Bellocchio, Pier Paolo Pasolini, Luciano Bianciardi, Bruno Zevi, Paolo Spriano, Giancarlo Pajetta, Fernanda Pivano, Giò Pomodoro, Gae Aulenti, Camilla Cederna, Tullio De Mauro, Gillo Dorfles, Sergio Solmi, Natalino Sapegno, Umberto Terracini, Bruno Trentin, Eugenio Scalfari, Alberto Moravia, Dacia Maraini, Inge Feltrinelli, Margherita Hack, Cesare Musatti, Bernardo Bertolucci, Marino Berengo, Franco Antonicelli, ecc.

151 Articolo non firmato, Un appello che ha raccolto mille firme. Gli intellettuali italiani contro il “blocco d’ordine”, «Avanti!», 16 gennaio 1972.

152 Appello per la scarcerazione di Pietro Valpreda, firmato da 400 personalità della cultura, «L’Espresso», 7 maggio 1972.

153 E. Enriques Agnoletti, W. Binni, S. Gaetani, A. Natoli, Non dimentichiamo il Vietnam, «L’Espresso», 22 giugno 1975; è un appello del «Comitato unitario per la ricostruzione del Vietnam» per una campagna di raccolta di fondi e medicinali. Il 27 febbraio dello stesso anno Binni ha partecipato, al tavolo della presidenza con Lelio Basso, Franco Fortini, Aldo Natoli e altri, a un’importante manifestazione unitaria per il Vietnam promossa al teatro Brancaccio di Roma da Avanguardia Operaia, Lotta Continua e Pdup, e alla quale hanno aderito Umberto Terracini e Riccardo Lombardi; archivio del Fondo Walter Binni.

154 Articolo non firmato, Iniziativa della Facoltà di Lettere di Siena. Gli intellettuali solidali con antifascisti catalani, «Avanti!», 18 novembre 1973, e altri quotidiani nazionali; archivio del Fondo Walter Binni.

155 Articolo non firmato, Intellettuali italiani per la liberazione di Seregni, «l’Unità», 7 maggio 1974, e altri quotidiani nazionali; archivio del Fondo Walter Binni.

156 Articolo non firmato, Mille docenti: aiutiamo i cileni perseguitati, «Paese Sera», 9 ottobre 1971; archivio del Fondo Walter Binni.

157 Campagna promossa dall’organizzazione della sinistra extraparlamentare Stella Rossa nel gennaio 1974; Binni fa parte del comitato promotore, con Enzo Enriques Agnoletti, Giulio Carlo Argan, Giorgio Benvenuto, Vincenzo Calò, Tristano Codignola, Mario Monicelli, Alberto Moravia, Angelo Maria Ripellino e altri. La petizione raccoglie oltre 100.000 adesioni. Il comitato promotore tiene, tra l’altro, un dibattito pubblico all’Università di Roma il 7 febbraio, al quale partecipano Binni, Enriques Agnoletti, Jiri Pelikan, Vincenzo Calò. Archivio del Fondo Walter Binni.

158 G. Rovera, Votare NO per costruire una società piú civile, interviste a W. Binni e G. Bassani, «Il Lavoro», Genova, 9 maggio 1974.

159 Articolo non firmato, Appello di intellettuali per i diritti civili, «Corriere della Sera», 21 giugno 1974, firmato da oltre duecento personalità della cultura tra cui Zevi, Sapegno, Carlo Levi, Binni, Camilla Cederna, Adele Cambria.

160 Appello contro la liberticida legge Reale, firmato da Ferruccio Parri, Bruno Trentin, Vittorio Foa, Giorgio Benvenuto, Natalia Ginzburg, Camilla Cederna, Stefano Rodotà, Marco Ramat, Raniero La Valle, Binni e altri, «Quotidiano dei Lavoratori», 30 aprile 1975.

161 Articolo non firmato, Domani due cortei. Studenti da tutta Italia, «Paese Sera», 17 gennaio 1975; allo sciopero nazionale degli studenti, con gli obbiettivi del diritto di voto a 18 anni e l’estensione dell’obbligo scolastico fino al sedicesimo anno di età, aderiscono centinaia di personalità della cultura tra cui Binni, Alberto Asor Rosa, Cesare Zavattini, Carlo Salinari, Giuliano Manacorda, Gianni Toti, Pier Paolo Pasolini.

162 Articolo non firmato, La difesa chiede un’altra inchiesta. G.B. Lazagna non è un “brigatista rosso”, «Avanti!», 2 settembre 1975.

163 P. Petroni, Leggere Leopardi. Un’intervista di Walter Binni. Il compito della cultura marxista, «Avanti!», 24 febbraio 1974.

164 W. Binni, Ugo Foscolo. Storia e poesia, Torino, Einaudi, 1982.

165 W. Binni, «L’antifascismo a Perugia nel periodo di preparazione della Resistenza», in Aa.Vv., Antifascismo e Resistenza nella provincia di Perugia, a cura di L. Cappuccelli, fascicolo speciale della rivista «Cittadino e Provincia» nel XXX anniversario della Resistenza e della Liberazione, Perugia, giugno 1975, poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 2007, pp. 103-115.

166 W. Binni, Monti poeta del consenso, Firenze, Sansoni, 1981. Il volume deriva dalle dispense genovesi dell’anno accademico 1955-56, con aggiornamento al 1981 della storia della critica.

167 W. Binni, Incontri con Dante, Ravenna, Longo, 1983.

168 W. Binni, La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri, Quaderni Regione dell’Umbria. Serie Studi storici, n. 4, Perugia 1984, 1989; Quaderni storici del Comune di Perugia, Guerra Edizioni, 2001; nuova edizione ampliata, Edizioni del Fondo Walter Binni, coedizione con Morlacchi editore, Perugia, 2007.

169 W. Binni, Augusto Agabiti, nel centenario della nascita, «Studia Oliveriana», vol. IV, Pesaro, 1984, pp. 165-178.

170 W. Binni, Perugia nella mia vita. Quasi un racconto, pubblicato postumo a cura dei familiari, Pisa-Roma, Gruppo Editoriale Internazionale, 1998, poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizioni 2001 e 2007.

171 “Pubblico” e “privato”. Che cosa ne direbbe Leopardi, intervista a W. Binni a cura di F. Bettini, «l’Unità», 12 dicembre 1980.

172 W. Binni, Un volto nobile fra tanti ceffi ignobili, «Micropolis», Perugia, ottobre 2007.

173 Gli articoli della sezione eliminata da Binni sono: Il «Corriere di Perugia» cit. (1980), Un fratello europeo cit. (1944), Verso la Costituente cit. (1945), Partito e tendenze cit. (1945), Parole e fatti cit. (1945), Chi ama la libertà cit. (1945). Gli articoli sono preceduti da una premessa che si conclude con queste parole: «Raccolgo questi pochi articoli […] perché insieme pertinenti alla mia attività politica esercitata a Perugia e in Umbria e alla natura del mio impegno etico-politico (dico etico-politico volutamente: a chi una volta mi disse «che vale l’etica senza la politica?» risposi «che vale la politica senza l’etica?»), senza il quale sarebbe impensabile il mio impegno di critico e di storico letterario, e sarebbero impensabili i modi della mia riscoperta dello stesso “impegno totale” di tanti autori – a cominciare da Leopardi – a lungo mistificati sotto l’insegna della “poesia pura” ed evasiva, consolatoria e rassicurante». Archivio del Fondo Walter Binni.

174 Aa.Vv., Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, a cura di M. Costanzo, E. Ghidetti, G. Savarese, C. Varese, Roma, Bonacci, 1985.

175 W. Binni, Lettura delle Operette Morali, Genova, Marietti, 1987, 1999.

176 Alla conferenza di Terni è presente Pietro Ingrao, come ricorda Claudio Carnieri nell’introduzione a P. Ingrao, La pratica del dubbio. Dialogo con C. Carnieri, Lecce, Manni, 2007: «Ho ancora intenso il ricordo di quando venne a Terni (1987) ad ascoltare una lezione dell’illustre italianista Walter Binni su Leopardi, sulla Ginestra, seduto in mezzo ad un teatro gremito di studenti. Mi capitò cosí di essere partecipe di una conversazione intensa, non dimenticabile, dove una visione dell’umanità legata al testo poetico si mischiava ad una rete di ricordi comuni che andavano ai tempi della cospirazione antifascista, di rimandi di conoscenze, Capitini, Calogero, Parri, La Pira, ed ad un senso enorme della storia democratica della nazione italiana uscita dalla guerra, dove le forze della sinistra erano riuscite ad imprimere un segno profondissimo».

177 W. Binni, Pensiero e poesia nell’ultimo Leopardi, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 1988.

178 W. Binni, Il messaggio della «Ginestra» ai giovani del ventesimo secolo, «Cinema Nuovo», a. 37°, n. 3, maggio-giugno 1988, poi in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia cit

179 W. Binni, lettera a Franco Foschi, inizio giugno 1988; archivio del Fondo Walter Binni.

180 N. Fano, Parlano Altan, Binni, Lombardo, Muscetta e Sanguineti. «Perché andrò all’Eliseo tra i sostenitori di quel no», «l’Unità», 19 gennaio 1990.

181 Articolo non firmato, «Italia ingrata dimentichi i tuoi poeti», «l’Unità», 24 gennaio 1990.

182 A. Barbato, «Cartolina» del 24 gennaio 1990, RaiTv 3; testo inviato da Barbato a Binni l’8 aprile 1991. Archivio del Fondo Walter Binni.

183 Lettera di W. Binni a N. Bobbio, senza data, gennaio 1991, non spedita; archivio del Fondo Walter Binni.

184 Si tratta dell’edizione delle Opere scelte di Capitini, Perugia, Protagon, con il coordinamento scientifico di W. Binni, N. Bobbio e C. Luporini; ne usciranno solo i primi due volumi, Scritti sulla nonviolenza, a cura di L. Schippa, 1992, e Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, 1994.

185 Copia della lettera nell’archivio del Fondo Walter Binni.

186 Binni aveva conosciuto Giaime Pintor a Perugia nel 1940.

187 W. Binni, Ai lettori, «La Rassegna della letteratura italiana», anno 96°, serie VIII, n. 1-2, gennaio-agosto 1992, pp. 5-6.

188 W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri saggi di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993.

189 Poi trascritta e pubblicata in W. Binni, Lezioni leopardiane, a cura di N. Bellucci, con la collaborazione di M. Dondero, Firenze, La Nuova Italia, 1994.

190 W. Binni, Lezioni leopardiane cit.

191 W. Binni, Studi alfieriani, 2 voll. a cura di M. Dondero, Modena, Mucchi, 1995.

192 W. Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, e altri scritti ariosteschi, a cura di R. Alhaique Pettinelli, Firenze, La Nuova Italia, 1996.

193 Il progetto rimarrà inattuato; Binni scioglierà il contratto con la casa editrice nell’estate 1997.

194 Il volume, realizzato sulla base del progetto di Binni, uscirà postumo: W. Binni, Poetica e poesia. Scritti novecenteschi, a cura di F. e L. Binni, introduzione di G. Ferroni, Milano, Sansoni, 1999.

195 Lettera pubblicata su «Liberazione», 25 marzo-1 aprile 1994, p. 1.

196 Binni, il ribelle, intervista a cura di G. Calcagno, «La Stampa-Tuttolibri», 26 marzo 1994.

197 Venticinque aprile. Tutta l’Italia è in movimento per raggiungere Milano, «il manifesto», 20 aprile 1994.

198 A sinistra c’è un’altra Europa, «il manifesto», 10 giugno 1994.

199 W. Binni, Saluto, in occasione dell’iscrizione nell’Albo d’Oro del Comune di Perugia, 20 giugno 1994; archivio del Fondo Walter Binni.

200 Il ritorno del Maestro fra i “ragazzi” di Lettere, intervista di F. De Nicola, «Il Secolo XIX» cit.

201 Trascrizione delle conclusioni di Binni; archivio del Fondo Walter Binni.

202 Le piazze del Belpaese, «il manifesto», 13 ottobre 1994.

203 Lettera di Norberto Bobbio, 31 ottobre 1994; archivio del Fondo Walter Binni.

204 Lettera di Mario Rigoni Stern, 29 novembre 1994; archivio del Fondo Walter Binni.

205 Presentano il volume, edito nel 1994, Luigi Blasucci ed Enrico Ghidetti, alla presenza di Binni.

206 Walter Binni, Il Maestro e la Ginestra, intervista a cura di M. S. Palieri, «l’Unità», 20 marzo 1995, p. 6. Nella stessa pagina G. Ferroni pubblica l’articolo 1964-1968. Quegli anni all’Università a lezione del “critico poetante”.

207 Lettera a Giorgio Tecce, 21 ottobre 1996; archivio del Fondo Walter Binni.

208 «Liberazione», 21 e 22 novembre 1966; «il manifesto», 22 novembre.

209 Lettera di Alessandro Natta, 10 gennaio 1997; archivio del Fondo Walter Binni.

210 Lettera di Norberto Bobbio, 14 gennaio 1997; archivio del Fondo Walter Binni.

211 Lettera ad Antonella Spaggiari, Sindaco di Reggio Emilia, s.d. (fine dicembre 1996), pubblicata su «Liberazione», 11 gennaio 1997.

212 Questa lotta tra vecchio e nuovo, intervista a cura di Eugenio Manca, «l’Unità», 2 febbraio 1997, p. 2; poi in W. Binni, Poetica e poesia. Scritti novecenteschi cit.

213 Lettera a Clara Cutini, 9 febbraio 1997, in accompagnamento delle lettere di Capitini: «[…] Naturalmente poche sono le lettere degli anni in cui lui ed io ci trovavamo quotidianamente a colloquiare, a Perugia. E nel periodo della dittatura il parlato si preferiva nettamente allo scritto per ovvie ragioni. […]».

214 Una scelta delle lettere di Capitini a Binni, e di Binni a Capitini, è stata pubblicata nel carteggio A. Capitini-W. Binni, Lettere 1931-1968 cit.

215 La corrispondenza generale (12.810 documenti), ordinata in sezioni, è depositata dal 2009 presso l’Archivio di Stato di Perugia.

216 La biblioteca di Binni, 15.000 volumi, sarà donata per volontà testamentaria alla Regione Umbria per essere collocata presso la Biblioteca comunale Augusta, dove si trova dal 2001, inventariata ma tuttora in fase di catalogazione; 9.000 volumi della biblioteca sono esposti, nelle scaffalature dello studio romano di Binni, in due sale dell’Augusta; gli altri 6.000 volumi si trovano nel “pozzo” della Biblioteca.

217 N. Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei, Firenze, Ponte alle Grazie, 1997. Alla presentazione partecipano Binni, Giulio Ferroni, Jaqueline Risset, Gennaro Savarese e Maria Ida Gaeta.

218 «L’ultimo saluto di Walter Binni», in Aa.Vv., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, Atti del convegno «La figura e l’opera di Aldo Capitini», Pisa, 18-19 aprile 1997, a cura di T. Raffaelli, Firenze, «Il Ponte», a. LIV, n. 10, ottobre 1998.

219 W. Binni, Poetica e poesia. Scritti novecenteschi cit.

220 W. Binni, Perugia nella mia vita. Quasi un racconto cit.

221 Testo letto da Novella Bellucci alla manifestazione di apertura delle celebrazioni leopardiane, Roma, Campidoglio, 19 gennaio 1998. Poi pubblicato in Aa.Vv., Ricordare Walter Binni, a cura del Comune di Perugia, Volumnia Editrice, 1998, e, con il titolo Leopardi contro la palude, in «Micropolis», Perugia, maggio 2010.

222 Binni è sepolto nella tomba di famiglia, nella parte piú alta del nucleo storico del cimitero di Perugia, vicino al monumento ai caduti della rivolta antipapalina del XX giugno 1859. Al funerale di Binni ha dedicato un toccante ricordo il poeta perugino Walter Cremonte nell’articolo Un funerale a Perugia, «Micropolis», febbraio 1998, poi in Aa.Vv., Ricordare Walter Binni cit.